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La charity con nove zeri

Ogni anno un fiume di dollari prende la via della beneficenza a favore di singoli o associazioni. Multinazionali del calibro di General Motors, Johnson & Johnson e General electric fra i maggiori dona

di Walter Mariotti

Il 1999 si arrotonda per difetto. Bank of America 91 milioni di dollari. General Motors 74 milioni di dollari. Johnson & Johnson 67 milioni di dollari. Philip Morris 60 milioni di dollari. General Electric 59 milioni di dollari. E così via, per centinaia e centinaia di multinazionali, corporations, grandi e medio grandi aziende a stelle e strisce.
Incassi? Non proprio. Profitti? No davvero. Mitiche golden shares? Per carità! Al contrario proprio carità, carità nuda e cruda. Quella folle somma di ?fantastilioni? infatti non si riferisce ai dividendi ma a loro infinitesimali percentuali, che le più importanti aziende americane hanno sborsato in charity nell?ultimo anno del Secondo millennio. Una cifra impressionante, un modo veramente diverso di entrare nel Terzo millennio.

I profitti in borsa (di studio)
Gli esempi si sprecano. Per celebrare l?accordo con la NationsBank -joint venture che ha creato uno dei più grossi agglomerati bancari del pianeta – gli impiegati e il management della BofA hanno donato il corrispettivo di un giorno di lavoro, costituendo così un fondo da attribuire alle comunità in cui la banca opera. General Motors invece ha destinato una percentuale dei profitti a borse di studio e programmi educativi delle scuole superiori, mirati a sviluppare le capacità delle minoranze nelle discipline scientifiche. Il gigante farmaceutico Johnson e Johnson dal canto suo, che da anni sostiene un corso per macchinisti di treno a Detroit, finanzia un programma nazionale per aiutare le minoranze dei ghetti e degli slums, mentre il più grande produttore di tabacchi del mondo, la Philip Morris, è un grande supporter di battaglie contro la fame e le malattie.
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare però, le donazioni in America non si fanno soltanto in cash. Impressionata dal ricordo di studenti poveri che trasportavano le loro cose in sacchi della spazzatura, Aubyn Burnside ha messo su in quattro anni una compagnia, la Suitcase for Kids di Hickory, North Carolina, che ha già distribuito diciottomila valigie ricevendo il Golden Rule Award da J.C. Penney. Una storia diversa, ma non poi troppo, da quella di Doris Stone, vedova cinquantenne di Texas City che non riusciva più a vivere con i seicento dollari mensili della pensione, soprattutto dopo aver adottato quattordici bambini disabili. La Valero Energy però, l?azienda in cui Doris aveva lavorato per quasi tutta la vita, ha deciso di intervenire costruendo due sets di sette letti e promuovendo un fund raising con tutti gli ex colleghi della donna, che hanno raccolto 48.000 dollari. Esattamente quanto serviva a Doris per avviare un piccolo fondo aggiuntivo.
Naturalmente, il charity trend non è una fiaba ma anche, e forse soprattutto, un business. Non solo perché tutto quello che viene donato può essere dedotto dalle tasse, ma anche perché in questo modo si evitano pastoie e divieti che altrimenti sarebbero insuperabili. Il caso più clamoroso è naturalmente quello delle compagnie di tabacco, che continuano a sponsorizzare non soltanto mostre di pittura o scultura come un tempo, ma da qualche mese addirittura interi musei. Effetto dell?aprile 1999, che ha reso esecutivo il divieto assoluto di esporre in un qualunque luogo pubblico qualsiasi pubblicità di tabacco: la donazione artistica restava così l?unica strada per farsi un po? di direct advertising.
Cifre e interessi cresciuti attorno al fenomeno del corporate charity hanno entusiasmato, ma anche scaldato l?anima intransigente dello spirito americano, quel puritanesimo capitalista che scorre sempre e comunque anche nelle vene del più insospettabile filantropo liberal. Secondo questa way of life infatti la corporate charity andrebbe contro lo spirito del capitalismo, l?energia mitica che ha fatto nascere, crescere e prosperare gli Stati Uniti. «La corporate charity? Esiste soltanto per dar modo ai presidenti dei consigli di amministrazione di collezionare premi bontà, placche e onori, in modo da sedersi sull?altare ed essere adorati», ha sentenziato di Albert J. Dunlap, dimenticato finanziere anglofrancese che nel 1996 visse i suoi quindici minuti di celebrità scrivendo un libro in cui dichiarava guerra a questo tipo di beneficenza.

Una questione scientifica
Da qui alla politica il passo è breve, perché sebbene il libro non sia divenuto un best seller, molti americani sono eccitati da parole come queste. Soprattutto dopo aver saputo dalle statistiche che per ogni dollaro che le aziende americane destinano a gruppi conservatori, 3,23 dollari vengono «regalati» al non profit, che in America suona come sinistra. Insomma una sorta di surrettizio finanziamento allo schieramento opposto. Una parte rumorosa della pubblica opinione sostiene così che non c?è ragione per cui le compagnie, soprattutto quelle partecipate dallo Stato, debbano essere caritatevoli. E la maggior parte degli economisti le danno ragione, scrivendo ovunque che il «business esiste esclusivamente per produrre beni e servizi, che la gente vuole prezzi competitivi e che, nel caso di aziende esclusivamente pubbliche, l?obiettivo morale e unico è di massimizzare i dividendi per gli azionisti». Ogni dollaro della compagnia donato è un dollaro non reinvestito nella compagnia.
Cosa riserva il futuro naturalmente non è chiaro. La previsione più sicura è che le politiche di donazione delle big companies varieranno secondo gli specifici bisogni delle stesse all?interno dell?ambiente in cui si muovono: perché si è ormai capito che se il contesto è migliore anche le aziende rendono di più. Nel mondo altamente competitivo dell?economia globale, il ritorno di ogni singolo, minimo «investimento caritatevole» passerà dunque al setaccio, scrutinato in ogni aspetto e conseguenza. Qualcosa però si può già prevedere: non ci si affiderà più alle emozioni personali del top management o dalle pressioni delle loro consorti. Né tantomeno ci si lascerà commuovere dalle dolorose storie di bisogno e di disagio delle inner cities. C?è da scommettere, invece, che la charity diventerà una branca delle corporations, inserita negli organici aziendali e studiata a tavolino e gestita in maniera scientifica, professionale e spietata.
Il corporate giving, crescerà insomma in rapporto diretto con il corporate earnings.

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