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La carne e le ossa della città dell’Expo

Un esperimento inedito per raccontare una grande realtà urbana

di Luca Doninelli

Un libro raccoglie i racconti di scrittori non professionisti alle prese con Milano. Gli esiti sono sorprendenti. Ecco l’introduzione di chi ha curato la “regia” Questa città dura, difficile da amare, questa città meravigliosa ma dalle meraviglie nascoste, questa città che si espande ben oltre i confini delle proprie cerchie acquatiche e murarie, comunali e provinciali, questa città che ritroviamo non soltanto a Cernusco sul Naviglio o a Rozzano ma anche a Pavia, a Bergamo, a Varese, a Lecco, a Busto Arsizio, a Treviglio, questa città non è soltanto un problema gestionale ma anche e prima di tutto una realtà umana, fatta di gruppi ma prima ancora di racconti, ossia di persone, di destini.
Oggi anche nell’ambito delle discipline psicologiche, pedagogiche e sociali si parla molto di «racconto», anche se non si ha l’impressione che tutti conoscano pienamente il senso di questa parola. Affinché ci sia racconto devono esserci dei destini personali in gioco: non perché le moltitudini, le comunità non abbiano un loro racconto che comprende tradizioni, memoria, abitudini e vicissitudini storiche (come dice Marco Revelli, le biografie di chi migra sono biografie spezzate, interrotte, e questo è un tratto caratteristico di tutta la società globalizzata), ma perché è nel concreto del destino personale, nell’alzarsi della voce solista, della storia individuale da quel racconto corale che può nascere un rapporto tra diversi capace di superare la soglia della mera conflittualità. C’è stato un tempo in cui la fiducia positivista nelle magnifiche sorti e progressive della scienza e il riflusso dell’avventura colonialista, con annessa condanna morale, portarono una parte della cultura europea a interrogarsi su quanto legittimamente l’Occidente potesse considerarsi la civiltà per eccellenza, relegando le altre ad aree bisognose di un intervento civilizzatore. L’altro (lo straniero, il lontano, lo strano, il bizzarro, il mostruoso, il malato, il criminale, l’irregolare ecc.) cominciò a diventare un serio parametro, talora indispensabile, per la conoscenza di sé. Noi ci conosciamo attraverso ciò che è altro da noi, e la sua diversità è lo specchio migliore per comprendere chi siamo.
Fu così, sul fascino di questo grande input, che nacque e si affermò, oltre alla psicologia e alla sociologia, anche l’etnologia, o antropologia culturale. Uomini che possiamo chiamare eroi, persone colte e spesso ricche, cresciute per esempio a Londra, o a Parigi, affrontarono lunghissimi viaggi e condizioni di vita pressoché impossibili, vivendo per anni la stessa vita delle società primitive (così le chiamavano allora) che si erano proposti di studiare. Le biografie di questi uomini sono una testimonianza della forza delle idee. Essi non prendevano il mare, non abbandonavano per anni le loro famiglie e i loro sicuri corsi universitari per sviluppare semplicemente una disciplina tentata dal sogno (allora) di darsi lo statuto di scienza. La posta in gioco era ben più grande: si trattava di ribaltare l’idea stessa di natura. La natura è un dato? Quello che noi siamo è un dato? La nostra conoscenza e il nostro sapere procedono da un atteggiamento naturale, ossia dato, oppure sono il prodotto di qualcos’altro, per esempio delle strutture economiche (Marx), o della nostra volontà di potenza (Nietzsche), o di una realtà incontrollabile e oscura che chiamiamo inconscio (Freud)? Ma gli eventi hanno travolto le idee.
La fiducia in quelle magnifiche sorti è tramontata, e nessun figlio eccellente delle università europee attraversa più gli oceani per vivere nudo e povero a contatto con uomini, usanze e religioni sconosciute. In compenso, l’altro adesso è qui, a Milano.
I figli di chi costruiva la propria capanna secondo un rituale millenario abitano nelle nostre città, fanno i commessi o gli impiegati o i muratori, e alcuni di loro hanno studiato, oppure sono diventati imprenditori, e magari i nostri figli – nati e cresciuti a Milano – lavoreranno alle loro dipendenze. Eppure, nonostante le distanze siano state abolite sia da internet che da tragedie ancora in parte sconosciute (questa concomitanza tra rete e tragedia planetaria meriterebbe maggior attenzione), la difficoltà di rapportarsi con l’altro rimane intatta. Evidentemente, non basta abolire le distanze per fare comunità. Raccontare e raccontarsi, dar conto della pluralità che esiste, favorire l’ascolto di una diversità che, piano piano, comincia ad acquistare voce è lo scopo del nostro lavoro. Fare etnografia narrativa significa da un lato prendere sul serio il soggetto che siamo noi che raccontiamo – la nostra posizione nel tempo, nello spazio e nella società, il nostro carattere, la nostra storia – e, al tempo stesso, guardare tutto quello che ci circonda (non solo gli stranieri, quindi, ma anche la via dove abbiamo sempre vissuto, la nostra stessa casa, un canale, un edificio, un quartiere e i suoi abitanti ecc.) con la curiosità di chi vuole mettersi in rapporto con qualcosa che è altro da sé.

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