Non profit

La carica dei 460 musei statali made in Italy. Il Belpaese è ancora malato di centralismo

Patrimonio artistico

di Maurizio Regosa

La sua valorizzazione avrebbe dovuto diventare «materia di legislazione concorrente» fra Stato e Regioni. Ma per il patrimonio artistico la riforma è rimasta al palo. «Il trasferimento di competenze non si è verificato», si dispiace Ledo Prato (nella foto), segretario generale della Fondazione CittàItalia, «anche perché le Regioni non hanno legiferato, come avrebbero dovuto». E così il notevole patrimonio del Belpaese dorme sonni molto tranquilli in una ovattata culla pre sussidiarietà. Per confrontare: da noi, oltre a centinaia di siti archeologici e di palazzi storici gestiti centralmente, esistono 460 musei statali. Appena di là dal confine, Francia e Spagna (che ci battono per numero di visitatori attestandosi a 74 e 52 milioni rispetto ai nostri 50) hanno fatto scelte diverse: sono 36 i musei statali francesi, mentre nella penisola iberica a occuparsi del patrimonio sono le comunità regionali.
«C’è stata una certa ignavia», spiega Prato, «che ha portato le Regioni a non cogliere nemmeno le aperture del Codice dei beni culturali». Aperture del resto anche molto concrete: «Le attività di valorizzazione dei beni culturali di appartenenza pubblica sono gestite in forma diretta o indiretta», si legge nel documento del 2004 (articolo 115). Una possibilità di scelta che avrebbe potuto introdurre la sussidiarietà orizzontale almeno nella gestione, ma che è rimasta lettera morta. «Così il ruolo del privato si è di fatto ridotto a due opzioni. O l’impresa fornisce una gestione in via subordinata oppure assume il ruolo del mecenate, dovendo però dimostrarsi disponibile a far fronte alle troppe diffidenze, come quelle emerse a proposito del Colosseo». Una scelta poco allettante. Va da sé che si dovrebbe cambiare rotta. «Per farlo occorrerebbe arrivare al federalismo demaniale: le comunità locali devono potersi prendere cura del loro patrimonio, agendo all’interno dell’indirizzo statale», spiega Prato.
La road map dunque potrebbe essere la seguente: riassegnazione dei beni alle amministrazioni che sono ad essi più prossime, verifica sulle opzioni di gestione (diretta oppure no), avvio di una nuova e più sussidiaria valorizzazione. Cercando magari di tener presente le esperienze europee. Serve un modello equilibrato che potrebbe procedere da una più chiara divisione dei compiti. Allo Stato potrebbero rimanere quei luoghi che testimoniano la cultura e la civiltà nazionali, gli altri andrebbero affidati alle comunità regionali che dovrebbero però rianalizzarli cercando di farne emergere significato e valore, all’interno delle politiche locali di sviluppo. «Se poi si riuscisse a declinare il federalismo demaniale con quello fiscale», conclude il segretario di CittàItalia, «potrebbero esserci anche le risorse necessarie».

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