Non profit

La Big Society inizia dal 5 per mille

editoriale

di Giuseppe Frangi

È un progetto di grande prospettiva quello annunciato in campagna elettorale da David Cameron e ora messo in cantiere a partire dalla costituzione della Big Society Bank. L’idea del leader inglese è quella di incoraggiare e incentivare i semplici cittadini a unirsi tra di loro e, attraverso organizzazioni, a prendere in mano la gestione di servizi locali, di scuole e di servizi sociali. Lo Stato centrale si trova sempre più impotente e in affanno di fronte alla nuova domanda di welfare, per cui cede potere alla comunità, sapendola più flessibile e più esperta di fronte alle nuove emergenze. Per spiegare bene la convenienza di questa sfida Phillip Bond, la testa pensante della riforma di Cameron, ha fatto questo esempio: «Lo Stato ora spende soldi per un sistema che non funziona. Prendiamo il reinserimento dei detenuti a fine pena. Attualmente le statistiche ci dicono che il 75% commette di nuovo reati. Ma è provato che se un’istituzione benefica gestisce il loro ritorno in società i risultati sono molto più positivi. A questo punto allo Stato converrebbe dare dei soldi all’istituzione benefica, e delegarle in toto questo compito. Il risparmio è garantito ma anche il maggior successo».
Quello tracciato da Blond sembra un percorso obbligato per tutte le democrazie, ma c’è sempre un rischio di equivoci. Il più allarmante è quello che porta a pensare che una svolta di questo tipo possa essere esito di un’operazione di laboratorio. Per stare all’esempio fatto da Blond, il reinserimento di una persona detenuta sarà pur conveniente per tutti, ma non è certo pensabile fuori da un interesse, da un’attenzione umana per il destino della persona in questione. E quest’attenzione non può essere indotta a comando, ma è esito di ideali e di sensibilità condivise.
Il secondo equivoco è quello di pensare che la Big Society corrisponda ad una sorta di azzeramento dell’esistente. Ed è questo equivoco che ha portato alcuni osservatori a essere drasticamente pessimisti su una Big Society all’italiana: da una parte scontiamo la mancanza di uno Stato «capacitatore», dall’altra l’assenza di organizzazioni intermedie capaci di risolvere i problemi collettivi. Sul primo punto non si può non essere d’accordo. Il secondo invece è frutto di una visione tutta produttivistica del bene sociale, incapace di riconoscere un patrimonio di coesione e di solidarietà già esistente. Invece questo patrimonio è proprio la base su cui far leva per la crescita di una vera Big Society, in grado di essere protagonista con responsabilità molto più ampie. Quello che occorre è da una parte una maggiore autoconsapevolezza delle proprie potenzialità da parte delle organizzazioni, e quindi un maggiore coraggio. Dall’altra occorrono alcune semplici misure «capacitatrici». La più semplice di tutte ovviamente è che il 5 per mille diventi legge, assicurando quel rapporto diretto tra cittadino contribuente e libere realtà sociali. Un po’ meno semplice, ma molto urgente, è anche la riforma elettorale. Perché il sistema oggi in vigore svuota di ogni potere i cittadini, a favore degli apparati, partitici o meno. E con un potere blindato come quello con cui abbiamo a che fare, immaginare una Big Society è pura utopia.


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