Ci sono città che si sforzano d'essere accoglienti. Ma più grande è lo sforzo, più è evidente il contrasto. E così anche la grande bellezza di una capitale rischia di spezzarsi nella contrapposizione del bianco e del nero. Senza lasciare spazio alle sfumature in cui questi due mondi s'incontrano e, auspicabilmente, si confondono.
Per un toscano che vive Roma come luogo di destinazione per sporadici incontri professionali, ogni viaggio nella capitale rappresenta un nuovo motivo di rammarico. Andandosene si prova sempre un nostalgico dispiacere per tutto quello che avresti voluto fare o vedere e che puntualmente non hai fatto e non hai visto. Da qui la decisione figlia dell'afflizione: concedersi una vacanza romana. Prima i biglietti del treno, poi la scelta della stanza. In centro, possibilmente. Più precisamente a ridosso di via del Corso. Perché si possa partire da lì a piedi, anche di notte.
La pioggia non permette di guardare in su. Gli ombrelli sono aperti. Peccato. Perché la bellezza non è solo nelle cuspidi, nei cornicioni, lungo le vie, dietro angoli più o meno bui. La si vede anche in alto, nelle architetture e negli spazi vuoti, nelle finestre accese che lasciano immaginare le vite degli altri e nelle luci moderne che creano installazioni improbabili in luoghi improbabili, sui tetti o nelle terrazze di antichi palazzi.
La bellezza borghese di negozi d'alto profilo si frantuma come sempre nella povertà di chi mendica davanti alle chiese o, come in questo giorno di pioggia, senza braccia e senza gambe arranca privo d'ausili artificiali, come un cristo senza croce, in mezzo alla via dei ricchi bagnandosi i monconi nelle pozzanghere.
Tutti vedono quell'uomo, ma nessuno lo guarda. Non un cenno d'umana pietà. Ma siamo nella società del rancore (così dice anche l'ultimo rapporto Censis), forse non c'è da stupirsi. Eppure, nonostante tutto, ancora non riesco ad accettare l'indifferenza.
Non è che Roma sia insensibile. Tutt'altro. Ci prova a essere più accogliente. Eliminando le barriere architettoniche, ad esempio. Ma pedane e ascensori non compensano i tremori dei bus che scossi dai sampietrini e dalle buche si sconquassano lungo i tragitti urbani per l'eccesso di vibrazioni. Ci provano a rendere l'arte accessibile con i rilievi realizzati appositamente per permettere di toccare pitture (come quelle di Caravaggio e Raffaello) o architetture (come piazza del Campidoglio).
Ma per ogni capolavoro da maneggiare ci sono infinite bellezze ancora inafferrabili e l'opportunità concessa non fa che aumentare il contrasto. E se anche lo store del Trastevere Calcio mette in vetrina la maglia con il logo della Comunità di Sant'Egidio, questo non basta a far riflettere l'imperturbabile indifferente.
Stupisce infine che anche il settimanale di Corriere delle Sera, che solo pochi giorni fa ha dedicato la copertina ai sette peccati capitali di Roma chiedendosi se può redimersi, in quella lista abbia trascurato proprio questa dimensione sociale. Si parla però di trasporto pubblico, immondizia, buche, problemi idraulici, economia, gestione del verde, innovazione digitale. Come se fosse tutto qua.
L'ultimo paradosso si consuma proprio di fronte alla stazione in quel che resta delle Terme di Diocleziano, le più grandi dell'antica Roma, dov'è in corso la mostra "Je suis l’autre". È dedicata al primitivismo nella scultura del secolo scorso. Ci sono opere di grandi artisti del Novecento che hanno attinto a piene mani dalle culture un tempo lontane e ora sempre più vicine.
Ma all'ingresso, sotto il manifesto che riporta la scritta nera su fondo bianco "Je suis l’autre", ci sono senzatetto (proprio come "quelli del Papa", sotto la galleria di San Pietro) e ragazzi africani adagiati su quel che resta di vecchie scatole di cartone usate in una vita precedente per imballare chissà cosa. Sono a piedi nudi, in attesa. Forse di ritrovare la speranza.
"Je suis l’autre", si legge ancora.
"Comme ci comme ça", aggiungiamo noi.
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