Mondo
la banalità delle ong
Gli errori dei non governativi secondo l'antropologo francese Giorgio Blundo
«Troppi progetti spesso scoordinati tra di loro. Politiche di sviluppo usate come strumenti di potere. Per il mondo
umanitario è tempo di esami di coscienza» Non la fame, né la povertà e ancora meno gli ultimi dati forniti dalla Fao su quel centinaio di milioni di persone in più che nel mondo soffrono di malnutrizione. No, a pochi giorni dal G8 dell’Aquila, il tema all’ordine del giorno è un mattone di oltre 500 pagine che fa a pezzi le politiche di aiuti internazionale. A scriverlo è stata un’economista zambiana, Dambisa Moyo, diventata nel giro di pochi mesi un caso politico. Al punto che il Time ha deciso di inserirla nella classifica delle cento personalità più influenti al mondo. Una scelta che ha mandato su tutte le furie ong e attivisti impegnati a lottare contro la povertà in Africa, e reso felice l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan convinto che il suo libro, Dead Aid: Why Aid is Not Working and How There is a Better Way For Africa, «ci spinge ad avere un nuovo approccio all’Africa».
Secondo Dambisa Moyo, gli aiuti hanno finito per creare una dipendenza pericolosa e messo a repentaglio la good governance, cioè una delle condizioni “sine qua non” per uscire dalla povertà. Ma è davvero così? Per toglierci il dubbio, Vita ha scelto una voce fuori dal coro. Quella di Giorgio Blundo, antropologo della francese École des Hautes Études en Sciences Sociales, con alle spalle anni di ricerca in Africa occidentale su tematiche cruciali come la decentralizzazione, i poteri locali e la corruzione amministrativa.
Vita: Professor Blundo, Dambisa Moyo è talmente irritata con gli aiuti internazionali da chiedere una loro moratoria sino al 2050. Lei come risponde a una provocazione di questo genere?
Giorgio Blundo: Devo ammettere che con alcuni colleghi ci siamo più volte posto il problema. Il tipo di dinamiche che gli aiuti hanno prodotto negli anni serve a tutto salvo che a creare uno sviluppo economico-sociale sostenibile in Africa. Tuttavia, bloccare totalmente gli aiuti significa costringere certi Stati a sospendere il pagamento dei salari ai funzionari oppure impedire a intere fette di popolazione di accedere a ogni tipo di servizio pubblico. La realtà è che con il passare degli anni, i “progetti” sono diventati un elemento banale e quotidiano dell’esistenza delle popolazioni rurali e urbane. Negli ultimi quattro decenni, c’è stata una tale proliferazione di programmi, tra l’altro spesso scoordinati, che molti attori locali hanno finito per appropriarsi i discorsi, le pratiche, le mode dello sviluppo importate dall’estero per adattarle al loro contesto sociale, politico, culturale ed economico.
Vita: Con quali conseguenze sul piano socio-economico?
Blundo: Gli aiuti hanno prodotto una serie di risorse materiali e simboliche che hanno generato grandi forme di disuguaglianza. Troppo spesso si parla del modo con cui gli Stati hanno per così dire deviato gli aiuti, ma è forse opportuno sottolineare che molti individui, tra cui anche quelli appartenenti ad ong, hanno sfruttato le politiche di sviluppo per crearsi degli spazi di potere.
Vita: Che ruolo ha avuto la società civile?
Blundo: Nell’ultimo decennio la nuova parola d’ordine degli organismi internazionali è “partecipazione”, il che significa un rafforzamento del ruolo della società civile nelle attività di sviluppo e di promozione della “good governance”. Ora, per la Banca mondiale o l’Fmi la società civile è incarnata dalle ong. Molte di loro svolgono sicuramente un ottimo lavoro, ma è altrettanto vero che, almeno in Africa occidentale, molti individui, offrendosi come intermediari tra donatori e beneficiari, hanno sfruttato le possibilità offerte dal mondo della cooperazione per creare un sistema di prebende e di rendite da reinvestire nell’arena politica locale. Non a caso, se prima lavorare in un’ong era umiliante, oggi la professionalizzazione delle ong africane hanno reso questo mestiere attraente. Questo sistema finisce per alimentare disuguaglianza.
Vita: In un’intervista rilasciata poche settimane fa ad Afronline, il giornalista ugandese Andrew Mwenda sosteneva che a salvare l’Africa non saranno gli aiuti, ma la responsabilità dei governi e l’affermazione di un regime di tassazione…
Blundo: Vero. Lavorando sul terreno, ho potuto constatare, assieme ad altri colleghi, una forte attesa da parte di molti cittadini africani di varia estrazione sociale nei confronti dello Stato e della sua capacità a fornire servizi pubblici di qualità. Ora, per avere questi servizi è necessaria l’affermazione di un buon sistema di tassazione. Il che significa una propensione dei cittadini a pagare le tasse, ma soprattutto dei governi a gestirle bene e ridistribuire le ricchezze. Chi paga tasse ha molte attese.
Vita: Che vie rimangono per una maggiore trasparenza negli aiuti allo sviluppo?
Blundo: Da troppo tempo la Comunità internazionale limita il suo approccio su questioni tecniche, come ad esempio abbassare i costi dell’amministrazione pubblica, formare i funzionari o promuovere le riforme di decentramento amministrativo. Purtroppo questi interventi tendono ad occultare la dimensione politica delle dinamiche socio-economiche provocate dagli aiuti. Ogni progetto crea delle lotte di potere a livello locale provocando degli squilibri e dei riaggiustamenti. Credo che sia necessario ri-politicizzare la riflessione sugli interventi e sul ruolo degli intermediari dello sviluppo. Un altro fronte è la lotta all’impunità, condizione necessaria se si vuole dare credibilità agli interventi e lottare in maniera più efficiente contro la corruzione che mina i rapporti fra cittadini e Stato, ma anche fra gli Stati africani e la comunità internazionale. Non bastano le campagne mediatiche per la probità pubblica intraprese dai governi per continuare a ottenere i fondi della cooperazione. Occorre una volontà politica forte, sorretta da un’opinione pubblica che, seppure in gestazione, chiede sempre più apertamente la rifondazione degli Stati africani.
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