Il caso
La bambina di Reggio e noi
Un neonato morto dentro uno zainetto in riva al mare di Villa S. Giovanni (Rc). Una bambina 13enne individuata come madre. Un caso che non arriva a scalfire le cronache nazionali e che è subito archiviato come "di ordinario degrado". Con Elisa Furnari, presidente della Fondazione Èbbene di Catania, madre e donna impegnata, abbiamo cercato di andare oltre gli schemi
Essere sentinelle sul territorio ascoltando, riferendo, prendendo in carico le famiglie fragili per stabilire o ristabilire con loro una relazione di fiducia. Tutto questo e molto altro sembra sia mancato nella vicenda che ha riguardato la tredicenne di Villa San Giovanni, in provincia di Reggio Calabria, madre del neonato trovato senza vita in uno zaino abbandonato sugli scogli. Di lei, della sua famiglia, si è detto che viveva in una situazione di disagio, un contesto degradato. Un caso rapidamente svanito dalle cronache nazionali, a differenza di altri, analoghi, che hanno alimentato clamore, indignazione, protesta.
Una fotografia scattata su una realtà che, secondo l’immaginario collettivo, è comunemente intrisa di povertà, fame come bisogno, abbandono fisico, ma che sicuramente lontana da quel che ha generato e che genera situazioni drammatiche come quella calabrese, ultima solo in ordine di tempo.
Secondo Elisa Furnari, presidente di Fondazione Èbbene, l’analisi che parte da quanto accaduto ha più piani di interpretazione
«Quello che è successo», ci dice, «lo leggo, ma lo sento anche in qualità di donna e mamma, come una grande sconfitta. In primo luogo anche rispetto a come la stampa ha trattato e tratta casi del genere. L’unica cosa che sembra certa, per i media, è che la famiglia conviveva in un contesto degradato».
Ma cosa vuol dire esattamente contesto degradato?
Se non capiamo che degrado vuol dire famiglia sola, senza supporto, non osservata da nessuno, non capiremo mai come intervenire. Mi chiedo, per esempio, cosa facesse questa ragazzina di 13 anni, se e come andasse a scuola, in parrocchia. Dobbiamo introdurre l’importantissimo tema della rete educativa, che non è soltanto sostegno, ma prevenzione, si deve riflettere sul fatto che qualcuno doveva sapere, invece…. Il problema è che il nostro sistema colpevolizza soltanto chi è materialmente attore del reato. La verità è, però, altra. E il perché di questa gravidanza ci deve portare a una considerazione che va al di là di tutto. Non si può spiegare altrimenti.
Un episodio come quello accaduto è, quindi, indicatore di cosa?
Si parla di pelle scura del bambino, si dice che è una ragazza di 13 anni italiana e lo si spara a pieni titoli, così come quando qualche mese fa c’è stato lo stupro a Catania e si è detto che i giovani erano egiziani. Avrebbe stupito di meno, sarebbe stato più normale se fosse stata una ragazza di colore? Tutto questo è pericolosissimo perché la comunicazione si concentra sulla colpa del singolo, che verrà poi accertata dagli organi competenti, quindi attraverso indagini e in un tribunale, ma un fatto come questo è sicuramente frutto della responsabilità diffusa di una comunità. Vogliamo dire del “sistema paese”? Chiamiamolo pure “sistema paese” ma, se una ragazza di 13 anni, a quanto pare capace di intendere e volere, perché nessun elemento parla del contrario, arriva a essere vittima anche lei di una vicenda come questa, non ci sono dubbi, il fallimento è comunitario.
Il concetto di degrado sociale va ben oltre il bisogno economico
Elisa Furnari, presidente Fondazione Èbbene
Il focus oggi sicuramente deve essere soprattutto sulla narrazione proposta dai media
Il titolo sparato a piena pagina è che “la famiglia vive in un contesto degradato”. E questo al netto dell’incapacità della stampa generalista di fare una riflessione su cosa c’è dietro, su cosa vuol dire degrado per la maggior parte delle persone. Nel sentire comune una famiglia è degradata semplicemente se non ha cibo, non ha accesso alle cure primarie e ai servizi di base, se non ha una casa; forse per tutti questi elementi insieme, lo Stato e anche il Terzo settore delle risposte le danno perché ancora, seppur ridotte, soprattutto al Sud, le mense e pacchi alimentari ci sono, così come ci sono ancora alcuni voucher dell’abitare sociale, dell’edilizia popolare. Ma il concetto di degrado sociale va ben oltre il bisogno economico: nel nostro caso non coincide con la mancanza di qualcosa che possiamo toccare, misurare. È fondamentalmente l’assenza di ascolto della famiglia quando è sola, quando non c’è nessuno che è capace di osservare e sentire il suo problema.
Come si pone in tale contesto il tema della gestione della spesa pubblica?
I dati ci dicono che la spesa del Paese per il welfare sarà destinata alla previdenza, un’ottima parte nella sanità e, poi, alla fine, in qualche modo nei servizi alla persona e all’istruzione. Il primo elemento di questa vicenda ci racconta che i soggetti che fanno parte della comunità educante sono fragili; vuol dire che nella scuola, nella parrocchia, nei centri educativi sono riusciti a intercettare questo bisogno dove altri non sono riusciti a intervenire. Vuol dire anche che quel sistema che noi trattiamo come residuale della spesa del Paese, evidentemente non può più esserlo. Un altro punto del problema da considerare è che il nostro welfare è sempre più prestazionale, sempre più legato all’erogazione di servizi estremamente misurabili, tangibili.
Per non arrivare a quella condizione, la famiglia avrebbe avuto solo bisogno di essere osservata e ascoltata?
Difficilmente i servizi di welfare lasciano ampio spazio alla vera attività di osservazione, di ascolto. È un pezzo piccolo, un pezzo che si va stringendo, che non è facile da controllare perché intanto le ore di ascolto, di osservazione di un professionista del Terzo settore, rispetto al territorio e ai bisogni delle famiglie, è costosissimo. E poi perché il bisogno si intercetta stando sul territorio e il soggetto pubblico non può avere la forza di essere occhi, orecchie e bocca ovunque. Questo lo può fare solo il Terzo settore.
Cosa manca fondamentalmente?
Manca la titolarità. Al Terzo settore viene chiesto di offrire prestazioni non di essere quella diramazione territoriale minuziosa dell’occhio pubblico sul territorio. Che sia un welfare sempre più prestazionale, te ne rendi conto nel momento in cui i bandi collegano le attività di ascolto alla prestazione. Io posso prendere in carico la famiglia nel momento in cui si è palesato un bisogno e solo per quello. Il lavoro che abbiamo tentato di fare in questi anni come Fondazione è stato quello di accompagnamento. Le organizzazioni che stanno nel nostro sistema fanno un’attività di osservazione e di ascolto, che è indipendente dalla domanda della famiglia, ma che è presenza nella vita e nei contesti più difficili. Solo così fai prevenzione Ci siamo ritagliati noi questo ruolo e spazio di azione, ma tutto dipende sempre dalla volontà dell’operatore, dal territorio o anche dal momento storico. Ce lo siamo dati come obiettivo, come metodo, come aspirazione. Poi, se ti dicessi che riusciamo a farlo sempre, non sarei del tutto onesta.
Ci vorrebbe un anello di congiunzione tra Terzo settore e pubblico?
Manca più che altro una visione di ampio respiro rispetto alla capacità del pubblico che non riesce a intercettare le fragilità. La spesa pubblica non è concentrata sui servizi della comunità educante, così come la scuola, le piccole associazioni, le imprese sono giustamente concentrata su altro. Un concetto non semplicissimo da esprimere, ma sta qui il punto al netto del dato sulla spesa. Voglio dire che, dal momento che i servizi alla persona e l’istruzione pesano meno nella spesa di un paese, il welfare si sta orientando sempre più verso prestazioni che hanno un’evidenza e che sono quasi più facilmente risolutive. L’operatore sociale, nella tradizione anche formativa del nostro Paese, è quello capace di riconoscere i segnali del disagio, anche quando il disagio non si palesa nella richiesta di aiuto e di relazione. Ruolo che sempre più nei progetti, nei bandi, non trova un giustificativo economico, un investimento sufficiente. Non stiamo mettendo a budget nella spesa sociale la capacità degli operatori del Terzo settore di essere sentinelle di una situazione critica, sentinelle come quelle che sono mancate almeno per nove mesi in quella famiglia che la comunità non è stato in grado di vedere.
Cosa ci insegna questa tragica storia?
È un campanello d’allarme che ci insegna che c’è una responsabilità che abbiamo noi, che siamo Paese. Dovremmo permettere al Terzo settore di costruire veramente insieme al pubblico servizi di welfare, ma non attraverso co-progettazioni inesistenti in cui il Terzo settore fa solo la cortesia al pubblico di scrivere i progetti perchè non sempre ci sono le competenze per farlo. Sullo sfondo di questa vicenda c’è la fotografia di un welfare parcellizzato, concentrato sulla prestazione, che non riconosce valore e che non mette a budget la capacità di essere capillari per monitorare e risolvere la condizione delle famiglie.
Sullo sfondo di questa vicenda c’è un welfare parcellizzato, concentrato solo sulla prestazione
Abbiamo, quindi, fatto passi indietro?
Il punto non è soltanto che siamo tornati indietro, ma che abbiamo scelto di dare peso a ciò che ci colpisce a primo acchito, preferendo non lavorare nella costruzione autentica, non fare quel lavoro di cesello che invece sarebbe il caso di fare. Purtroppo, la realtà sarà che tra qualche giorno la notizia uscirà dalla pagine di cronaca locale, mentre le impressioni, i giudizi su quella ragazzina rimarranno gli stessi. Ricordiamo, però, che a 13 anni non si partorisce, ma si va al cinema, si gioca con le bambole. Teniamolo sempre presente, soprattutto prima di lanciare sulle prime pagine la tragica realtà di così giovani e fragili vite.
Nella foto di apertura, di Pasquale Arbitrio per Agenzia Sintesi, lo Stretto di Messina, visto da Villa San Giovanni (Rc).
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