Economia

L’80% delle start up finanziate non raggiunge i risultati sperati

Eppure non si tratta d’insuccesso. Lo spiega Francesco Saviozzi, 36 anni, tutor presso l’Incubatore Speed Mi Up dell’Università Bocconi, sulla base di una ricerca americana dell'Harvard Business School

di Carmen Morrone

«Il dato del 80% si riferisce al tasso di aziende che non riescono a generare i tassi di ritorno dell’investimento attesi, secondo i dati di una ricerca americana curata da Shikhar Ghosh,  docente all’Harvard Business School che ha seguito da vicino ben otto innovative start up – precisa Saviozzi-. Un elemento che di per sé non è negativo perché, tra l’altro, è l’esempio di quell’aspetto selettivo fondamentale in un ecosistema imprenditoriale sano», precisa Saviozzi, che oltre a essere tutor, è direttore del master in Imprenditorialità e Strategia Aziendale SDA Bocconi e uno dei blogger di #StartupCorner .

In questo trend anche le start up a vocazione sociale?
La ricerca americana si riferisce alle start up in generale. In Italia, le start up a vocazione sociale operano in settori strategici. Pensiamo solo a quello socio-assistenziale che sarà sempre più importante nei prossimi anni, immaginando l’Italia fra dieci anni: con gran parte della popolazione over 70. L’imprenditore che riesce a scegliere bene il servizio o il prodotto da offrire in uno degli ambiti descritti, potrà avere successo.

Visto il basso tasso di successo, verrebbe da dire tanto sforzo, per poco risultato…
Raramente una start up funziona da subito perfettamente e da lì a poco tempo si trasforma in una vera e propria azienda. La start up nasce come prototipo, è un’idea imprenditoriale che direttamente va sul campo.

Un tempo l’idea d’impresa era oggetto di studio di fattibilità. Oggi?
Si prevedevano scenari e reazioni, ora non è più così, soprattutto per le innovazioni.
La start up è ricerca e sviluppo applicata al mercato. Sono modelli di offerta abbozzati e messi sul mercato. Le start up vanno sul mercato e poi si devono ritarare.

Il crowdfunding non è una sorta di segnale di mercato?
Un conto è trovare persone che alla domanda: “acquisteresti questo prodotto?” rispondono di si. Un altro è il mercato. Colossi industriali hanno speso miliardi in ricerche di mercato andando incontro però a clamorosi fallimenti. Negli anni 80, Coca-Cola decise di cambiare gusto, ma ai clienti non piacque e dovette ritirare la nuova produzione e tornare al gusto classico.

Quindi per aprire una start up  bastano intuito e passione?
No, almeno non solo. Occorrono competenze, ma è molto forte l’interazione con la realtà. Il mercato mette alla prova l’innovazione di processo o di prodotto e l’intelligenza del gruppo che deve trovare possibili soluzioni.

Quali sono le ragioni più diffuse di “insuccesso” delle start up?
A volte manca il supporto finanziario. Altre volte c’è una rottura all’interno dello staff. Nelle start up il gruppo non si aggrega attorno a una struttura, ma a un interesse. Quando qualcosa attorno all’interesse cambia, gli equilibri del gruppo possono saltare.

A questi due elementi si aggiunge il tradizionale rischio d’impresa…
Occorre sapere gestire il rischio. Più l’idea è innovativa, maggiore è il rischio. Gli italiani non sono abituati a rischiare e questo frena lo slancio imprenditoriale.

Start up sì o start up no?
Sì. Decisamene si. In questo momento, i tempi sono buoni, per contesto e per quadro legislativo. Soprattutto per chi vuole partire da zero.

Dell’impianto normativo relativo alle start up messo in atto di recente, che ne pensa?
È un primo passo. Ce ne sono molti altri da fare. Sicuramente oggi lo spirito della politica, degli amministratori pubblici è quello di promuovere le start up, come contributo alla crescita del Paese.

Un consiglio a chi vuole aprire una start up?
Osare. Le start up a vocazione sociale che si occupano di turismo, formazione, ambiente, assistenza e così via, rappresentano una buona opportunità.

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