Cultura

L’ottimismo? Io dico che è una virtù

Solidarietà e cattolici. Il missionario giornalista padre Gheddo replica ad un articolo di Angelo Ferrari.

di Piero Gheddo

Ringrazio Angelo Ferrari per l?articolo ?L?ottimismo di padre Gheddo» (Vita, n. 4, 25 gennaio), perché coglie bene lo spirito che anima il volume Davide e Golia – I cattolici e la sfida della globalizzazione (San Paolo editore), che ho scritto col giornalista di Avvenire Roberto Beretta. È uno spirito sostanzialmente ottimista riguardo al mondo moderno e al fenomeno della ?mondializzazione?: oggi, in un?epoca di cambiamenti radicali che suscitano paure e chiusure soprattutto nei giovani, abbiamo bisogno di speranza per costruire un mondo nuovo, più fraterno e più solidale con i poveri. Non serve molto protestare e denunziare: bisogna proporre alternative alla società moderna, consumista, materialista ed egoista, che non piace a nessuno. Vedo che gli stessi ?no global? oggi si autodefiniscono ?new global?: sono passati dal demonizzare radicalmente la globalizzazione all?atteggiamento più costruttivo di voler orientare in modo positivo questo fenomeno epocale del mondo che diventa ?un solo villaggio?. Ma per proporre un ?modello di sviluppo? alternativo, valido per tutti, occorre partire da analisi confermate dai fatti. L?analisi da cui partiva il movimento dei no global di Genova non è confermata dalle situazioni del mondo povero. Il volume che abbiamo pubblicato credo meriti di essere letto e discusso, come dice anche Angelo Ferrari: «Il libro pone degli interrogativi, stimola il dibattito, prende posizioni nette». Due sono i contenuti di fondo del Davide e Golia: 1) Primo, i Paesi dell?Africa nera sono poveri soprattutto per cause interne, mentre in Occidente si parla quasi solo delle cause esterne, che esistono ma che non sono alla radice del sottosviluppo: l?analfabetismo di buona parte della popolazione; le culture non integrate nel mondo moderno (la sacralizzazione della natura, mentalità fataliste, la donna senza istruzione e personalità…); le dittature personali o militari; i governi che privilegiano le città alle campagne, le élite al popolo, i militari alla scuola e alla sanità (nei bilanci degli Stati africani, il 30-35% va alle forze armate, il 3% a scuola e sanità!); la corruzione amministrativa come costume normale, che frena ogni sviluppo, ecc. Tutto questo il volume lo documenta in modo preciso. Occorre educare i popoli, istruirli, renderli coscienti dei propri diritti, dargli conoscenze per produrre di più (a Vercelli si producono 70 quintali di riso all?ettaro, nell?agricoltura africana tradizionale solo 4-5!), altrimenti si rimane tagliati fuori dal commercio mondiale: l?Africa nera partecipava al 3% del commercio mondiale nel 1970, all?1,6% nel 1998… Se non c?è educazione del popolo, è inutile protestare contro i vari Mobutu: passato un dittatore, ne arriva un altro e Kabila non è certo migliore di Mobutu! 2) Quale solidarietà con i popoli poveri? A Genova i no global contestavano i G8 per motivi economici: pochi aiuti, debito estero, Tobin Tax, prezzi materie prime, vendita armi, costi alti per i medicinali contro l?Aids, ecc. Tutte cose vere e sacrosante, ma non risolutive per lo sviluppo africano: anche perdonato il debito estero, se non cambia qualcosa all?interno dei singoli Paesi e nel popolo, fra cinque-dieci anni saremo peggio di adesso perché la popolazione africana aumenta: 280 milioni nel 1960, 800 e più oggi. Oggi l?Africa nera importa il 30% del cibo che consuma (nel 1960 esportava cibo): il debito estero è inevitabile. Prendere coscienza di questi fatti vuol dire dare una risposta realistica all?interrogativo: cosa fare? I popoli africani sono giovani, hanno immense possibilità di sviluppo come intelligenza, umanità, ricchezze naturali: ma vanno educati, altrimenti retrocedono mentre il mondo va avanti. Però, per educare, bisogna andarci, non basta mandare soldi e macchine, non basta annullare il debito estero né non vendere più armi (il 40% circa delle armi nell?Africa nera vengono dal Sud Africa e i massacri in Ruanda e Burundi si compiono con i coltelli, i bastoni, il fuoco). I giovani animati da buona intenzione debbono dare grandi ideali alla loro vita. La nostra società (scuola, famiglie, politica, gruppi, associazioni, parrocchie, mass media) dovrebbe dare questo ideale: essere fratelli dei popoli africani. Ma come? Andando a condividere, a educare e lasciarsi educare, donare la vita o parte della vita per i poveri, gettare ponti di comprensione e di scambio fra Nord e Sud del mondo. Non basta protestare, bisogna dare se stessi. L?esempio sono i missionari e i volontari laici che vanno nei villaggi africani, si adattano a clima e cibo, costumi e lingua, diventano amici, aiutano educando col Vangelo, creando famiglie e comunità nuove. Il libro Davide e Golia documenta perché secondo i Papi, l?esperienza dei missionari e delle giovani Chiese (lo dicono i vescovi locali in molti messaggi), il Vangelo è il primo e più importante aiuto che possiamo portare ai popoli della fame; però quando, anche in ambienti cattolici, si parla e si discute del come essere solidali, questo è quasi sempre taciuto. Perché?


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