Formazione

L’etica al suo posto

Ordinaria decenza e giustizia distributiva: sono le due regole che i manager devono rispettare. E che contano più della csr

di Redazione

Secondo l?ascoltatissimo professor Joel Balkan, la csr è un imbroglio perché devono essere i governi a regolare le responsabilità sociali delle aziende. Ribatte l?Economist: le aziende sono già sin troppo regolate, però è desiderabile stabilire una chiara suddivisione di compiti fra il business e il governo. E qual è il compito del business? I manager devono pensare molto più decisamente all?etica del business di quanto appare che facciano al momento. è la mancanza di chiarezza riguardo all?etica del business che porta alla confusione su quali siano le responsabilità dei manager e su dove arrivano i limiti di quelle responsabilità. Il punto cruciale è che i manager delle ?public companies? (aziende con azionariato diffuso) non sono proprietari dei business che gestiscono. Sono impiegati dai proprietari delle ditte per massimizzare il valore a lungo termine dei propri capitali. Utilizzare quei capitali in modo diverso sarebbe frodare i proprietari e questo sarebbe non-etico. Se un manager ritiene che il business per cui sta lavorando possa causare danno alla società in generale la cosa giusta da fare è di non lavorare per quel business, prima di tutto. Nessuno obbliga qualcuno che ritiene un male l?industria del tabacco a lavorare in quell?industria. Ma se qualcuno accetta una retribuzione per dirigere un business del tabacco nell?interesse dei proprietari, questa persona ha anche un dovere verso quei proprietari. Non rispettare quel dovere sarebbe non-etico. Ma l?etica del business non è una scatola vuota, sostiene l?Economist, come dimostra il fatto che il seguire la legge non esaurisce le responsabilità etiche di un?impresa, cosa che è vera anche per un individuo. Alcune cose che sono legali non sono etiche; e molte cose richieste dall?etica non sono richieste dalla legge. Ma che cosa c?è in quella scatola? Elaine Sternberg, filosofa accademica e consulente di affari (e in precedenza banchiere di investimenti), argomenta in modo persuasivo nel suo libro Solo affari che esistono due cose principali: «L?ordinaria decenza e la giustizia distributiva». Queste due cose vanno capite in relazione al corretto obiettivo dell?azienda. Senza questi valori di base, il business non sarebbe possibile. Se il valore per il proprietario e la proprietà stessa devono significare qualcosa, ci deve essere rispetto per i diritti della proprietà. Questo esclude, come precisa la signora Sternberg, «mentire, imbrogliare, rubare, coercizione, violenza fisica e la gran parte delle illegalità»; si richiede invece «onestà ed equità». Presi assieme, questi limiti riflettono la domanda di ?ordinaria decenza?. Alcuni uomini di affari sembrano credere che qualunque cosa che non sia palesemente illegale, e tuttavia non etica, possa essere ritenuta come una corretta condotta nel business. Ma senza l??ordinaria decenza? (che va molto al di là di quanto la legge richiede alle aziende), il business non potrebbe essere gestito correttamente. Le ditte che mentono e imbrogliano non possono aspettarsi di rimanere nel business molto a lungo, anche se le loro azioni sono ammesse dalla legge. Le ditte disoneste saranno incapaci di ottenere crediti, di ottenere capitale, o di formare relazioni stabili di affari con fornitori e clienti. La decenza in questo senso non è solo buona per il business, ma essenziale. Quando il punto è quello di massimizzare il valore a lungo termine per il proprietario, l?onestà non è solo la miglior politica, è la sola politica attuabile. L?Economist affronta la questione delle economie criminali, come la mafia: è un business che massimizza i profitti, ma sovvertendo la politica e gli ordinamenti giudiziari. Alcuni critici del business considerano le ?grandi multinazionali? come poco più che avamposti di un impero di tipo mafioso. Nel mondo, secondo Michael Moore, queste aziende sistematicamente mentono e truffano, e se la cavano corrompendo e intimidendo e sovvertendo sia la politica che il sistema giudiziario. In effetti c?è poca differenza, da questo punto di vista, fra la Halliburton (o la IBM, al riguardo di questo argomento, o la General Motors o la GlaxoSmithKline) e ?Cosa nostra?. Ogni tanto i dirigenti commettono crimini, naturalmente. Normalmente vengono scoperti e puniti. A parte questo, se si crede che le ?grandi multinazionali? siano essenzialmente delle imprese criminali che rimangono impunite si è al di fuori della portata di un articolo sull?etica del business. Altro caposaldo etico del business è la giustizia distributiva: proporzionare i benefici ai meriti senza privilegi. Ma come ribattono i teorici della csr a questa visione dell?etica del business? Ecco come il settimanale inglese sintetizza la loro opposizione. Molti autori di scritti sull?etica del business, e proprio quelli che sostengono la csr, argomentano che questo modo di pensare confonde il giusto scopo dell?impresa. Far soldi per i proprietari è una visione troppo ristretta dello scopo di una azienda. Dà troppa importanza alla proprietà, alla ?pura proprietà? come essi direbbero. I proprietari sono appena un gruppo tra i vari ?titolari di interessi? in un business. È sbagliato gestire un business nell?interesse di un solo tipo di ?titolari di interessi?, ignorando i legittimi interessi di tutti gli altri. C?è tanta confusione , assolutamente non necessaria, circa i ?titolari di interessi?. I business devono certamente tener conto di altre parti interessate, se vogliono aver successo come tali: essi devono soddisfare i loro clienti, andare d?accordo con i loro fornitori, motivare i propri dipendenti, e così via. In questo senso questi differenti gruppi di ?titolari di interessi? avranno il loro spazio ed eserciteranno la loro influenza. Ma ?tener conto di? non è lo stesso che ?essere responsabili verso?. La responsabilità si riferisce ad un insieme di diritti e doveri molto più formale e diretto. L?affondo finale chiama in causa la csr nella cattiva gestione delle aziende. Il leit motiv di molti scandali è il comportamento di manager che non rispondono più alla proprietà. E la proprietà è stata delegittimata proprio dai teorici della csr che hanno opposto l?idea dei tanti titolari di interessi. Resta da affrontare la questione del rapporto tra politica e business e i risvolti etici che comporta. Un caso che l?Economist affronta partendo dal caso del monopolio. Consideriamo il caso del monopolio. I manager non possono essere criticati su base etica per aver cercato di spingere i loro concorrenti fuori dal business – purché lo facciano vendendo un prodotto migliore, per esempio, invece che attraverso l?inganno, o la coercizione o attraverso pratiche illegalmente anticompetitive. E se riescono a instaurare un monopolio, non è non-etico definire un prezzo che massimizza gli utili dell?azienda, o anche (nei limiti consentiti dalla legge) creare barriere all?ingresso di altri concorrenti (per esempio spendendo notevolmente in pubblicità). Per questa ragione non è non-etico per un?azienda fare una campagna presso il governo per la protezione dalla concorrenza straniera, citando le proprie preoccupazioni, come un buon cittadino, per il benessere dei propri lavoratori. Tutte queste cose possono ben essere etiche, anche quando, dal punto di vista della società nel suo insieme, possono essere non desiderabili. Questo apparente paradosso sottolinea solo il punto che le imprese non dovrebbero tentare di fare il lavoro dei governi, proprio come i governi non dovrebbero cercar di fare il lavoro delle imprese. Gli obiettivi del business e gli obiettivi del governo sono diversi, o dovrebbero esserlo. Questa è la ragione per cui la ?partnership? fra i due solleva sempre alti sospetti. I manager, agendo all?interno della loro capacità professionale, non dovrebbero occuparsi del ?bene pubblico?; non ne hanno la competenza, né le credenziali democratiche. Per questo il loro lavoro quotidiano non dovrebbe lasciar loro neppure il tempo di pensarci. Se essi si concentrano puramente sui doveri della loro responsabilità verso i proprietari della loro azienda, agendo eticamente nel farlo, essi serviranno normalmente nello stesso tempo anche il bene pubblico. I corretti custodi dell?interesse pubblico sono i governi che ne sono responsabili verso tutti i cittadini. è il lavoro dei politici eletti quello di porre obiettivi per i legislatori, di gestire le esternazioni, di mediare tra differenti interessi, di occuparsi della domanda di giustizia sociale, di fornire beni pubblici e di riscuotere le tasse che servono a pagare gli stessi, di stabilire priorità collettive dove questo è necessario e appropriato e di organizzare le risorse opportune. Il giusto compito del business è il business. Non sono richieste scuse. Caro Economist, la tua survey sulla csr è un utile ripasso di microeconomia, dalle nostre parti la chiamiamo economia aziendale. D?accordo. Nulla da dichiarare: se la csr è buonismo veltroniano (il sindaco di Roma ne è campione) allora è bull shit. Nonostante le tue sperticate dimostrazioni tese a far solo ricorso alle cogenti forze della tristizia umana, anche per te il capitalismo necessita di dosi abbondanti del tuo proverbiale should, quel dovrebbe che di cogente non ha nulla se non l?autorevolezza di chi lo pronuncia. A pagina 16, colonna 1, per esempio: «I manager dovrebbero porre mente maggiore all?etica degli affari». E quale particolare interesse ve li costringe? Come vedi, il capitalismo stesso obbedisce al teorema di Godel che dimostra come ogni sistema si basa su qualcosa che sta fuori del sistema stesso. Nel caso del sistema economico capitalistico, questo qualcosa è l?usanza, la cultura, l?etica: fattori tutti generati fuori del sacrosanto egoismo economico. C?è dunque evoluzione anche nel costume economico: quattrocento anni fa neanche i bilanci contabili erano obbligatori e pubblici. Pensa allora al sopraggiungere di questo fattore culturale chiamato responsabilità sociale delle imprese. Pensalo come una moda, un usciere modesto. Immagina cosa accade se la csr viene estesa oltre i confini odierni del mecenatismo, della filantropia e del paternalismo. Immagina le utilities che danno resoconti comparabili della loro qualità del servizio. Immagina – e ne hai fatto l? esperienza tu stesso – immagina i farmaceutici che presentano dati sui test dei loro prodotti. Immagina banche e aziende che rivelano dati sulla quota di forniture pubbliche nei loro ricavi. Immagina che si allarghi l?area della disclosure aziendale; che per magia, per una incongrua spirale virtuosa, i rater delle imprese quotate dispongano di maggiori fonti ufficiali oltre al gossip che è per loro la canna del gas. Immagina qualcosa dove il capitalismo è di là da venire. Le amministrazioni pubbliche per esempio: la accountability delle politiche pubbliche è csr. Immagina un mondo in cui hai dati sui servizi locali a confronto fra Comuni e fra nazioni. È un mondo più capitalistico. Immagina quanti survey potresti fare sulla efficacia delle politiche pubbliche, settore per settore. Immagina una crociata per liberare il settore pubblico dalla adhocrazia che lo governa. Immagina l?Unione europea che abbandona il ruolo di elemosiniere di soldini il cui rendiconto dettagliato – chi prende cosa – da nessuna parte esiste. Immagina gli eurocrati a battere i marciapiedi dei tribunali d?Europa per un lavoro di advocacy e un efficiente sistema giudiziario. Immagina sindacati e associazioni datoriali come delatori contro la corruzione nelle amministrazioni e nel privato (anche nel privato ci sono le tangenti). Vola sopra un mercato che va a caccia dei nemici del capitalismo: gli effetti esterni e l?assenza di concorrenza. Scatena le tue fantasie in una realtà di minori costi di transazione. Magari tutte queste belle cose tu le hai già, ma noi no. Tutto questo è sogno per noi che ti leggiamo col naso schiacciato sul vetro, come gli albanesi guardano la nostra televisione. Immagina infine tutto questo squadernìo dell?universo economico raccolto con amore in un volume e ottieni un Csr Report di un nuovo genere, un bilancio che include la contabilità e ne espande il contenuto, un bilancio foriero di ricerca, trasparenza e diffusione della informazione. Tutti buoni amici del capitalismo. Come noi. Caro Economist, Imagine... Avete esagerato. No, avete ragione Moltissime le reazioni arrivate alla redazione dell?Economist che ha dedicato l?intera sezione delle lettere del numero del 5 febbraio alla corporate social responsibility. Ecco le più significative, che Etica&Finanza ha tradotto. Perché il dibattito diventi più fitto e articolato anche all?interno del ?bacino d?utenza? italiano. Oxfam: non siamo anticapitalisti L?idea che un capitalismo senza regole generi automaticamente dei benefici sociali è senza senso. Le imprese irresponsabili fanno danni inseguendo il profitto a scapito di ogni altra cosa. Tali imprese non solo ignorano le implicazioni sociali delle loro azioni, ma portano avanti consapevolmente delle strategie che arrecheranno danni. Ciononostante non tutte le ong sono anti capitaliste. Noi chiediamo semplicemente che il mondo delle imprese assicuri che le sue operazioni non danneggino né le popolazioni indifese né l?ambiente e che si dia da fare per innalzare i suoi standard, soprattutto nel settore farmaceutico, estrattivo e nelle catene produttive del tessile e dei beni di consumo. Jeremy Hobbs, Oxfam International – Oxford Il Pam: qualcosa di meglio del denaro I primissimi aiuti alimentari del Pam, il Programma alimentare mondiale, ad arrivare ad Aceh dopo lo tsunami è stato trasportato da donatori privati. Il corriere Tnt ha messo a disposizione aerei da trasporto, camioncini per le consegne e autisti. Unilever ha prestato il suo capillare network distributivo per portare il cibo ai sopravvissuti. Danone ha prodotto e donato biscotti ad alto contenuto energetico. Citigroup ha offerto subito gli spazi dei suoi uffici, le sue scrivanie e i suoi telefoni al team logistico del Pam. I dipendenti del Boston Consulting Group ci hanno prestato la loro esperienza. Subito dopo un disastro, questi tipi di aiuto sono meglio di qualsiasi cosa acquistabile con il denaro. James Morris, Programma alimentare mondiale dell?Onu – Roma L?Economist ha ragione: è solo marketing Come consumatore e cittadino devo ammettere che né grosse catene che vendono hamburger e che sponsorizzano squadre giovanili di calcio, né le buste in carta riciclata che ricevo ogni tanto mi impressionano granché. Le imprese dovrebbero smetterla con questa farsa tanto di moda. O, almeno, chiamare la csr con il suo vero nome: marketing. Ingvild Paulsen, Glasgow Dal Global Compact: la csr riempie un vuoto Dal momento che le imprese sono diventate globali, tematiche considerate un tempo ?leggere? dal settore privato, oggi pongono dei dilemmi economici ?pesanti? e stanno entrando parte integrante dell?analisi dei rischi d?impresa. Fino a quando i governi non riusciranno a fare la loro parte e fino a quando le imprese agiscono a livello globale, la csr aiuta a riempire un grosso vuoto. Georg Kell, UN Global Compact – New York Lettera aperta al settimanale inglese Caro Economist, per capire la csr ci vuole più immaginazione Caro Economist, la tua survey sulla csr è un utile ripasso di microeconomia, dalle nostre parti la chiamiamo economia aziendale. D?accordo. Nulla da dichiarare: se la csr è buonismo veltroniano (il sindaco di Roma ne è campione) allora è bull shit. Nonostante le tue sperticate dimostrazioni tese a far solo ricorso alle cogenti forze della tristizia umana, anche per te il capitalismo necessita di dosi abbondanti del tuo proverbiale should, quel dovrebbe che di cogente non ha nulla se non l?autorevolezza di chi lo pronuncia. A pagina 16, colonna 1, per esempio: «I manager dovrebbero porre mente maggiore all?etica degli affari». E quale particolare interesse ve li costringe? Come vedi, il capitalismo stesso obbedisce al teorema di Godel che dimostra come ogni sistema si basa su qualcosa che sta fuori del sistema stesso. Nel caso del sistema economico capitalistico, questo qualcosa è l?usanza, la cultura, l?etica: fattori tutti generati fuori del sacrosanto egoismo economico. C?è dunque evoluzione anche nel costume economico: quattrocento anni fa neanche i bilanci contabili erano obbligatori e pubblici. Pensa allora al sopraggiungere di questo fattore culturale chiamato responsabilità sociale delle imprese. Pensalo come una moda, un usciere modesto. Immagina cosa accade se la csr viene estesa oltre i confini odierni del mecenatismo, della filantropia e del paternalismo. Immagina le utilities che danno resoconti comparabili della loro qualità del servizio. Immagina – e ne hai fatto l? esperienza tu stesso – immagina i farmaceutici che presentano dati sui test dei loro prodotti. Immagina banche e aziende che rivelano dati sulla quota di forniture pubbliche nei loro ricavi. Immagina che si allarghi l?area della disclosure aziendale; che per magia, per una incongrua spirale virtuosa, i rater delle imprese quotate dispongano di maggiori fonti ufficiali oltre al gossip che è per loro la canna del gas. Immagina qualcosa dove il capitalismo è di là da venire. Le amministrazioni pubbliche per esempio: la accountability delle politiche pubbliche è csr. Immagina un mondo in cui hai dati sui servizi locali a confronto fra Comuni e fra nazioni. È un mondo più capitalistico. Immagina quanti survey potresti fare sulla efficacia delle politiche pubbliche, settore per settore. Immagina una crociata per liberare il settore pubblico dalla adhocrazia che lo governa. Immagina l?Unione europea che abbandona il ruolo di elemosiniere di soldini il cui rendiconto dettagliato – chi prende cosa – da nessuna parte esiste. Immagina gli eurocrati a battere i marciapiedi dei tribunali d?Europa per un lavoro di advocacy e un efficiente sistema giudiziario. Immagina sindacati e associazioni datoriali come delatori contro la corruzione nelle amministrazioni e nel privato (anche nel privato ci sono le tangenti). Vola sopra un mercato che va a caccia dei nemici del capitalismo: gli effetti esterni e l?assenza di concorrenza. Scatena le tue fantasie in una realtà di minori costi di transazione. Magari tutte queste belle cose tu le hai già, ma noi no. Tutto questo è sogno per noi che ti leggiamo col naso schiacciato sul vetro, come gli albanesi guardano la nostra televisione. Immagina infine tutto questo squadernìo dell?universo economico raccolto con amore in un volume e ottieni un Csr Report di un nuovo genere, un bilancio che include la contabilità e ne espande il contenuto, un bilancio foriero di ricerca, trasparenza e diffusione della informazione. Tutti buoni amici del capitalismo. Come noi. Caro Economist, Imagine… Paolo Anselmi


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