Famiglia

L’esperienza dei Barabba’s Clown. La gag vale più di mille parole

Lavorano ad Arese, tra i figli del disagio raccolti dai salesiani. Dice Bano Ferrari, il fondatore: "Non è la panacea. Ma è un strumento che funziona. Perciò..." (di Sara De Carli).

di Redazione

“Circo scuola di vita e clownterapia? Non voglio neanche sentirlo”. Massimo Giuggioli, coordinatore pedagogico dei Barabba?s Clown di Arese, alle porte di Milano, è piuttosto critico. D?altronde ha tutta l?esperienza per poterselo permettere. A loro infatti i ?casi difficili? non capitano: li vanno a cercare! Diversamente da altre associazioni, i Barabba?s nel disagio sociale lavorano in modo esclusivo, per scelta. Anzi, ci sono proprio nati. Nel 1977 o giù di lì, quando Bano Ferrari, uno dei più promettenti clown italiani, sbarca al Centro salesiano di Arese, che raccoglie i ?barabitt?: giovani marchiati come ?delinquenti? o, se va bene, come ?ragazzi in difficoltà?. «Facciamo i clown perché Bano era un clown. Se avessimo avuto un educatore appassionato di musica, avremmo messo su un?orchestra», continua Giuggioli. Il Centro accoglie anche oggi minori segnalati dai servizi sociali: furto, disadattamento scolastico, teppismo, gravi carenze educative e affettive. La clownerie è parte integrante del progetto educativo: i clown altri non sono che i ragazzi del Centro, di oggi e di ieri. Che nella clownerie hanno trovato la strada per costruire un futuro diverso. «La clownerie non è educativa in sé. L?importante è chi c?è dietro quel naso rosso, la relazione che riesce a stabilire con i ragazzi», insiste Bano Ferrari, direttore artistico dei Barabba?s. La clownerie cioè non è la panacea educativa che regala il riscatto sociale: è solo uno dei tanti strumenti in mano a un?équipe competente. E siccome è uno strumento efficace, lo si usa da più di vent?anni. Perché funziona così bene? «Per tre motivi», risponde Ferrari, che ha lavorato anche nel carcere di Milano e con il Sert della Asl di Tirano, sopra Sondrio. «Ha una logica simile a quella della strada, alla quale i ragazzi sono abituati: c?è una componente di rischio e di sfida; si genera un?identificazione con il clown pasticcione ma senza regole; dà risultati a breve termine ». Qual è invece la cosa difficile? «La parola: vorrebbero sempre fare gag basate sulla caduta o la sberla? Non sono abituati a esprimersi, anzi, la scuola li ha esclusi proprio per la loro scarsa competenza linguistica. Ma la comunicazione ha anche altri canali!». Chi è stato aiutato dalla clownerie, oggi con essa aiuta altri ragazzi: tutto l?incasso degli spettacoli dei Barabba?s è destinato alle missioni di Chacas (Perù) e Musha (Ruanda), dove hanno fondato anche delle associazioni gemelle. In Ruanda hanno finanziato 110mila adozioni a distanza, mentre 700 famiglie ricevono un contributo mensile per la scuola dei figli. Ci sono anche una casa di accoglienza per ragazzi di strada e cooperative artigianali. I soldi li portano loro stessi, con i nasi rossi. Perché la lingua dei clown è universale, e non hanno problemi a comunicare ottimismo e solidarietà. Come dice Bataille, il clown è chi sa (e fa) fare «capriole tra le stelle».

Sara De Carli


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