Welfare

L’era di open-Nike

"Una svolta epocale": così investitori responsabili e organizzazioni di difesa dei diritti umani definiscono la decisione di Nike di svelare i propri fornitori.

di Carlotta Jesi

Milestone, una pietra miliare. Neil Kearney non ha dubbi: il rapporto sulla responsabilità sociale di Nike pubblicato il 12 aprile segna una svolta epocale per i diritti dei lavoratori del Sud del mondo. E questo suo commento, altrettanto. Primo, perché Kearney, segretario generale dell?Itglwf – International textile, garment and leather workers? federation, parla a nome di 10 milioni di lavoratori del mondo. Secondo, perché è membro del Report review committee di Nike, il panel di esperti che ha contribuito a creare i criteri con cui è stato stilato il rapporto in cui la multinazionale americana svela nome e ubicazione di tutti i suoi fornitori. Ammettendo violazioni dei diritti umani da parte di molti di questi. L?impatto del ?mea culpa?? «D?ora in poi, nessuna azienda potrà più sostenere che la lista dei suoi fornitori è un segreto industriale», ha esultato all?indomani della pubblicazione del rapporto la fondatrice del Body Shop, Anita Roddick. Seguita da No sweat, Behind the label, National labor committee e da altre sigle del terzo settore internazionale che si battono per il rispetto dei diritti umani nelle fabbriche del Sud del mondo: «È un precedente che il mondo della corporate non può più ignorare». Precedente che, a onor di cronaca, aveva creato un anno fa la Gap, altro colosso americano dell?abbigliamento, ammettendo terribili condizioni di lavoro in alcune fabbriche di Messico, Cina, India e Russia e rescindendo i contratti con 136 fornitori. All?outing di Gap collaborò in prima persona Adam Kenzer, direttore dello shareholder activism della società di investimenti etici Domini Social Investments, che dichiara: «Per noi investitori responsabili il ritorno di Nike alla trasparenza è un?ottima notizia. Nel 1997 l?abbiamo esclusa dal panel delle nostre aziende proprio per la mancanza di trasparenza e gli abusi commessi nelle fabbriche dei Paesi poveri. È presto per dire se verrà riammessa, ma ha fatto un grosso passo avanti. Il rapporto, inoltre, ricalca quello di Gap esaminando le sue performance sociali Paese per Paese. Segno che quando una grande azienda investe sull?etica, le altre non possono tirarsi indietro, e che è possibile creare standard internazionali con cui monitorare il loro impatto». Un passo concreto come quello di Gap, la società civile lo aspetta anche dalla multinazionale della scarpa che ha fatto di «Just do it» – fallo e basta – il suo motto. Lo chiedono le ong specializzate nella difesa delle libertà fondamentali come Human Rights First e quelle che da anni si battono per abolire le pratiche di sfruttamento dell?industria tessile come la Clean Clothes Campaign. A nome di questa rete, in Italia, parla Francuccio Gesualdi del Centro nuovo modello di sviluppo: «Pubblicando la lista dei fornitori, Nike smette di giocare a nascondino. Però non prende impegni precisi per garantire i diritti dei lavoratori che oggi viola. Il rapporto si basa su un codice di condotta interno e volontario che non approfondisce temi importanti, primo fra tutti quello del salario. Il codice afferma che l?azienda deve corrispondere ai lavoratori il salario dovuto, ma senza definirne una soglia». Dell?insufficienza dei codici di condotta volontari è convinta Action Aid International: «L?approccio volontario a una responsabilità sociale ed ecologica deve essere associato a uno standard normativo vincolante», spiega Nicola Borello, convinto che molte imprese operino in un pericoloso vuoto normativo: «Le aziende transnazionali sfuggono alle legislazioni nazionali e, allo stesso tempo, molti abusi da esse commessi non sono regolati nemmeno dal diritto internazionale». Da qui la richiesta al governo italiano: «Si faccia promotore presso le Nazioni Unite di nuovi standard internazionali che stabiliscano obblighi giuridici per le imprese transnazionali». Ammissioni e omissioni del rapporto-La csr è importante. Ma quanta retorica… 1. Con questo report Nike riconosce apertamente il valore strategico della Corporate social responsibility per il business del gruppo e si propone di svolgere un ruolo di player nel promuovere buone prassi sia all’interno del gruppo (direttamente) sia all’esterno (suscitando un ?effetto imitazione?); 2. Il report csr 2004, sebbene ricco di informazioni e dati, non è considerato un punto di arrivo bensì di (ri)partenza e sono espressamente indicati gli anni 2005 e 2006 come date cruciali per mettere a punto sistemi di misurazione quantitativa dei risultati conseguiti dall’azienda sul fronte della Csr, di modo che tutti possano constatare se ci sono stati dei miglioramenti oggettivi. Significativa, in proposito, l’affermazione secondo la quale bisogna distinguere tra csr come percezione e csr come fatti; 3. Nike ammette che una buona csr non si può realizzare da soli (tentazione diffusa tra le aziende che pure si professano socialmente responsabili), ma che c’è bisogno del contributo di più soggetti: in primis, consumatori, sindacati, organizzazioni della società civile, lavoratori, comunità. 1. Anche in questo report fa capolino se non proprio l’autoreferenzialità, sicuramente un po’ di retorica. Per esempio, mentre Philip H. Knight, founder e chairman (ma, soprattutto, ex ceo) di Nike riconosce che ?la tiepida risposta iniziale della Nike alle critiche è stato un errore di cui sono interamente responsabile?, i due co-president Mark Parker e Charlie Denson non sfuggono alla tentazione di citare nella loro lettera di accompagnamento al report proprio Knight come la persona che negli ultimi 5 anni di più ha sottolineato con forza la necessità di integrare la csr nel business; 2. Nike dichiara di devolvere ogni anno il 3% degli utili (prima delle tasse) come contributi alle organizzazioni non profit sotto forma di prodotti, cash e servizi. I prodotti la fanno da padrona superando abbondantemente il 50% dei contributi mentre i servizi non superano il 3%. Eppure una ?rivoluzione culturale? come quella che Nike dichiara di voler intraprendere avrebbe bisogno per andare in porto anche di servizi, per esempio, di promozione culturale; 3. Nel promuovere la Csr un ruolo strategico è ricoperto dalla finanza. La Nike dimostra di esserne consapevole, ma dedica al tema solo la mezza pagina finale, limitandosi ad elencare le principali caratteristiche di tre benchmark di sostenibilità. Uno spazio, viste le premesse, decisamente insufficiente.


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