Cultura

L’amore di Wojtyla per i Paesi poveri ha un nome preciso. L’Africa tredici volte sua!

È il numero dei viaggi compiuti nel continente più dimenticato dai potenti. Un vero record. Che testimonia un’attenzione privilegiata.

di Padre Giulio Albanese

Senegal, 22 febbraio 1992: visita alla Maison des Esclaves nell?isola di Gorée. Giovanni Paolo II s?inginocchia penitente nel luogo da cui partivano incatenati milioni di schiavi, a bordo di bastimenti negrieri, per essere deportati oltreoceano. La visita papale, in quel santuario dell?umanità dolente, avviene nel quinto centenario della cristianizzazione delle Americhe.
Si tratta di uno dei primi mea culpa enunciati da Papa Wojtyla: un gesto di straordinaria umanità che spiazza tutti. I giornalisti al seguito cronometrano scrupolosamente il tempo di quella genuflessione: sette interminabili minuti in cui il Pontefice resta immobile, col capo riverso, raccolto in una silenziosa preghiera. Alzandosi, pronuncia poche parole, ma dense di significato, contro «il crimine enorme perpetrato con la deportazione degli schiavi da una civiltà che si dice cristiana (?). Sappiamo cosa furono i campi di sterminio. Qui ce n?è un modello!».

Ha visitato 33 Paesi
Papa Wojtyla compie 13 dei suoi viaggi internazionali in Africa, visitando 33 Paesi, alcuni anche due, o addirittura tre volte, come nel caso del Kenya. Tutto questo avviene proprio quando il continente non sembra affatto rappresentare una priorità nei piani editoriali della grande stampa internazionale, protesa invece su altri versanti come quello mediorientale. Egli è il solo grande statista, sulla scena mondiale, che rivela di avere a cuore la ?res publica?, il bene comune universale, soprattutto in riferimento al destino degli ultimi, coloro che popolano le periferie del villaggio globale.
Nei suoi ripetuti interventi, sia in sede internazionale che a livello pastorale, stigmatizza la cronica virulenza delle carestie come «politicamente inaccettabili e moralmente oltraggiose». In particolare, dopo il crollo del Muro di Berlino (1989), il Papa rende sempre più esplicita la sua critica al modello delle società industrializzate, spiegando con grande lucidità come il materialismo pratico renda i Grandi della Terra corresponsabili della crisi che attanaglia il continente nero. Costante l?accento che il Pontefice pone nei suoi discorsi sul tema della pace, in riferimento, particolarmente, alle tante ?guerre dimenticate? che insanguinano vaste regioni dell?Africa, all?utilizzo dei bambini soldato e all?assurda proliferazione di armi in Paesi dove si muore d?inedia.
Sempre in questo contesto, non perde occasione, soprattutto al termine degli Angelus domenicali, come anche durante le tradizionali udienze nella sala Nervi, di enunciare a chiare lettere il magistero della Chiesa in difesa dei diritti umani, del rispetto dello Stato di diritto e sulla necessità della cancellazione del debito estero che pesa sul destino delle nazioni africane come una sorta di spada di Damocle.

Il pullulare delle sette
Mantiene invece una posizione molto rigida sulla ?vexata quaestio? della liceità morale del ricorso al preservativo come deterrente contro la diffusione dell?Aids che dilaga un po? ovunque, soprattutto nei centri urbani, causando milioni di vittime. Sul piano ecclesiale, non pochi teologi africani e missionari invocano la realizzazione di un concilio africano che possa rispondere adeguatamente alle sfide che si profilano sull?orizzonte del terzo millennio. Il Papa è consapevole del malumore che circola in certe università e seminari, dove si vorrebbe una seria riforma della Chiesa africana. Il clero africano, infatti si misura sul terreno con un graduale allentamento dello spirito di appartenenza ecclesiale, e la sporulazione di sette infarcite di messianismi per bocche affamate rappresenta uno dei fenomeni più eloquenti.

1994, l?anno tremendo. I vescovi a Roma
Intanto le Small Christian Communities, promosse con determinazione dall?episcopato africano negli anni 70 e 80, in non poche diocesi continentali diventano, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, una componente fortemente innovativa ma, paradossalmente, anche problematica. Non appena queste piccole comunità cristiane cominciano a promuovere la partecipazione del laicato nella vita ecclesiale, anziché difendere l?agognato principio di sussidiarietà, s?innescano meccanismi di chiusura, dettati forse da un?eccessiva prudenza delle autorità ecclesiastiche.
Sta di fatto che questioni come queste accendono il dibattito teologico e pastorale. D?altronde, a molti non pare vi sia contraddizione tra la fedeltà al successore di Pietro e l?esigenza di riscoprire un ?modus vivendi? davvero africano, senza dover sopportare il pesante fardello della cultura latina, distante anni luce dall?Africa. Sebbene ritenga imprudente la convocazione di un concilio tutto africano, il Papa riunisce a Roma, nell?aprile 1994, l?assemblea speciale del sinodo dei vescovi per l?Africa, svoltasi mentre in Rwanda, Paese prevalentemente cattolico, imperversa il genocidio.
L?assemblea sinodale, sotto la spinta di vescovi e teologi riesce a pronunciarsi su vari temi, proponendo, nel documento finale, nuovi sviluppi nel senso dell?inculturazione e soprattutto proponendo una concezione ecclesiologica più adeguata al modello africano della famiglia. E nel settembre del 1995, quando Giovanni Paolo II visita il continente per consegnare alle chiese locali l?esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Africa, la speranza del cambiamento pare ragionevolmente fondata. Il documento pontificio assume infatti, se non tutte, almeno una buona quota delle richieste espresse dall?episcopato autoctono, anche per ciò che riguarda il ruolo della famiglia, le misure in favore del riconoscimento della dignità della donna e il dialogo con la religione tradizionale africana.
Facendosi avvocato dell?Africa, rivolge un pressante appello al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale, come pure a tutti i creditori , perché «alleggeriscano» i debiti che strangolano le nazioni africane. Incoraggia poi i Paesi industrializzati a prendere coscienza «del loro dovere di sostenere gli sforzi dei Paesi che lottano per uscire dalla povertà e dalla miseria», accusando poi i trafficanti di armi «complici di odiosi crimini contro l?umanità». Pugno di ferro, invece, sul riconoscimento del sacerdozio per gli sposati e più in particolare sul celibato del clero.
A un decennio dalla pubblicazione dell?Ecclesia in Africa, occorre riconoscere che, sotto il profilo attuativo, il cammino è ancora lungo. Gli istituti di formazione teologica e più in generale la formazione del clero autoctono continuano ad essere improntati all?insegna d?una eccessiva romanità, per non parlare della possibilità d?istituire una commissione per l?elaborazione di un diritto canonico africano, attento alle peculiari questioni matrimoniali presenti nel continente.

Erano 55 milioni, sono diventati 140
A questo punto viene spontaneo chiedersi quale futuro ha di fronte la Chiesa africana. Non c?è dubbio che sia fisiologica la tensione tra le aspettative e i ritardi istituzionali.
Se da una parte, nella liturgia africana alcuni elementi culturali sono stati assunti (come ad esempio gli strumenti musicali, la danza, il canto), dall?altra, l?africanizzazione del cristianesimo rimane una questione aperta che esige buona volontà da parte di tutti, in riva al Tevere e nel continente.
Una cosa è certa: i cattolici in Africa sono circa 140 milioni su 830 milioni di abitanti e rappresentano il 16,6% della popolazione. Una crescita numerica significativa, se si considera che nel 1978, quando Wojtyla divenne Papa, i cattolici africani erano 55 milioni.
Diversamente che in passato, quando dominavano in Africa i missionari europei, ora vi è un episcopato locale. E allora, come ha detto ripetutamente nel suo pontificato Giovanni Paolo II, citando un celebre passaggio di un discorso di Paolo VI nel 1969 a Kampala, è bene che gli africani diventino, a tutti gli effetti, missionari di se stessi, indicando peraltro ai suoi successori che la Chiesa africana ha esaurito il tempo delle tutele.

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