Famiglia

L’arditezza di scrivere mentre nel mondo si muore

Luca Doninelli. Per uno dei migliori scrittori italiani di oggi, questi dieci anni sono stati anni senza più sponde. Un po’ come per Vita.

di Luca Doninelli

Il decennio che è trascorso ha rappresentato per me la fine del tempo della formazione. Per un narratore della mia generazione il tempo della formazione è stato quello nel quale tutte le volte che s?immaginava una storia da scrivere il protagonista era sempre a sua volta uno scrittore, o aspirante scrittore, o scrittore fallito. Il mio volo nella letteratura è stato, fino a dieci anni fa, un volo protetto. Avevo dei maestri, avevo delle ali sotto cui riparare. Ero bene accolto, talvolta attaccato ma sempre sotto osservazione. Poi venne il tempo in cui dovetti cominciare a fare da me. Bene o male, la storia la dovevo fare io. Il mio maestro, Giovanni Testori, morì, e da quel momento toccò a me. Non avevo più apripista, nessuno mi tirava più la volata, dovevo andare in testa da solo. Non so se sono migliorato come scrittore, oppure se sono peggiorato. Non so se la tensione che i miei maestri riconoscevano in me sia rimasta, o se invece si è spenta, e io continuo, come si dice, solo per dovere di firma, come quei pugili che non sanno decidersi a smettere e intanto rimediano figuracce. Sarebbe bello possedere la limpidezza di giudizio che consiglia di smettere quando è ora. Non so nemmeno se la possiedo: finora non ho avvertito consigli di sorta, ma può darsi che sia colpa della mia presunzione. Quello che so è che, in questi dieci anni, il lavoro è stato diverso rispetto ai dieci precedenti. Che mi sono dovuto fare avanti di più, senza sponde. Ho dovuto imparare cosa significa vivere e lavorare in un pezzo di storia così insanguinato e, insieme, così stordito. Mi vien male al pensiero che io scrivevo le mie storie mentre in Bosnia si moriva a quel modo, mentre in Cecenia, in Uganda e in Sudan, mentre in Afghanistan e in Iraq e persino nel cuore dell?America il volto umano sembrava perdere progressivamente i suoi contorni. Eppure questo mi è toccato. Il risultato è sotto gli occhi di chiunque desideri vederlo. Potete giudicare se ho saputo star di fronte al tempo e alla storia o se, viceversa, ho saputo, in fondo in fondo, solo fuggire. Una certezza mi àncora alla vita: che non sono io il mio giudice. Il mio giudice è migliore di me, e non è solo Dio. Sono anche persone, amici. Ma la cosa più importante è che esco da questi dieci anni con una gran voglia di fare qualcosa di nuovo, di mai fatto prima, con la voglia di rischiare tutto da capo. Spero di riuscirci come narratore (ho in mente un grande romanzo di sette, ottocento pagine), ma se la vita mi indicasse altre vie prometto che non mi ucciderò per questo. Ringrazio tanto gli amici di Vita, che in questi anni non hanno fatto solo un bel giornale, libero e diverso da tutti gli altri, ma mi hanno sempre offerto un insuperabile esempio di energia, apertura mentale e spregiudicatezza.


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