Volontariato

L’amico G

Giorgio Gaber se n’è andato. Era un amico inquieto. Un cantante che non temeva di stonare. Un uomo che si metteva sempre di traverso, ponendo domande.

di Luca Doninelli

Doninelli: Ho sempre pensato il compito della letteratura, per quello che riguarda me, come quello di testimonianza: la parola deve farsi carico della realtà, quindi non coprire un?assenza ma compiere la fatica di dare il nome all?esperienza, il nome in cui più uomini possano riconoscere la propria esperienza. Una parola-chiave di tutta l?opera di Giorgio Gaber è realtà. Realtà che è passione. Una delle sue canzoni più famose, che è anche una delle più belle canzoni che ci siano, Chiedo scusa se vi parlo di Maria, dice:”Maria la realtà”. Il suo percorso di artista è un percorso singolare segnato, a un certo punto, dalla necessità di dare alla parola una consistenza, una realtà, perché solo se la parola ha una consistenza la parola diventa una casa nella quale ci si può riconoscere. Io sono sempre stato colpito, fin da bambino, da questo percorso di Giorgio Gaber che, a un certo punto, ha mutato la direzione del suo lavoro, facendo qualcosa d?altro che era imprevedibile. Conoscete tutti Giorgio Gaber, conoscete tutti la sua musica, le sue canzoni, i suoi spettacoli. È impressionante come in una parola che diventa un fatto (perché Gaber ha sempre detto quello che pensa del mondo, della vita, della politica) ci si possa riconoscere anche se non la si pensa esattamente allo stesso modo. Giorgio Gaber: È stato un cambio avvenuto intorno agli anni 70. Prima facevo questo mestiere in modo direi tradizionale, in quanto partecipavo ai festival, facevo i dischi, tutte le cose che fanno i cantanti. Poi ho trovato che il teatro valesse la pena di essere frequentato più spesso, perché dava una maggiore possibilità di ascolto delle parole dette. È diverso scrivere una canzone per il consumo e scriverla per il teatro: il teatro mi dà la possibilità di una comunicazione nella quale io avverto un senso, una profondità, un?emozione. E quindi uso il teatro per questa mia esperienza, che effettivamente non ha niente a che vedere con la distrazione di cui parlano tanti scrittori. Mi spiace che questa sera non ci sia Luporini che scrive insieme a me i testi degli spettacoli. È come se, nelle nostre discussioni, nel nostro stare insieme, noi facessimo tante piccole scoperte che ci sembrano decisive, e ci viene molta voglia di comunicarle al pubblico. Ecco, la comunicazione diventa la ragione delle nostre indagini, scoperte; ed è la parola che deve comunicare, e deve comunicare non tanto per distrarre quanto per restituire al pubblico quello che noi abbiamo sentito e che cerchiamo di comunicare, con la maggior precisione possibile, senza nessuna pretesa, ma solo con la speranza che a qualcuno possa servire. Doninelli: C?è stato un momento particolare in cui si è reso conto di questo? Gaber: La scoperta è dovuta al teatro; perché la canzone a teatro non c?era; c?era in Francia, ma non in Italia. I maestri sono stati nella scuola francese che faceva del racconto nella canzone un percorso emotivo preciso; e quindi non erano parole in libertà ripetute con la funzione di diventare poi ossessive e imporsi come un motivo di successo. L?ascolto di questi artisti francesi mi ha portato a considerare la possibilità di rinunciare alla televisione, ai dischi, ai festival e a tutto e a mettermi sul palcoscenico con un testo che dovesse essere fruito lì, non dopo. È una differenza che c?è fra la canzone da festival, che è una canzone nella quale ti immergi a poco a poco. La prima volta che la senti addirittura non la ami neanche, ma sono le ripetizioni dell?esecuzione che te la fanno amare; viceversa la canzone da teatro, proprio perché la parola diventa importante, è data per la prima volta e deve essere goduta subito. Lo sforzo è quello di fare una canzone con un arco emotivo completo che arrivi bene o male a dare il segno di quello che noi vogliamo dire. Doninelli: Mi è sempre sembrato che in lei tutto il discorso politico fosse molto legato a un forte senso della concretezza della vita. In questo senso, non si può dire che la sua sia una satira politica. Gaber: Io non amo la satira politica e in effetti non ne sono neanche tanto capace, non è il mio mestiere; mi piacerebbe andare più a fondo nelle cose che limitarmi a una battuta sull?uno o l?altro politico. Per cui anche la politica ritorna negli spettacoli in genere come rimando, come secondo piano, non come attacco diretto. Credo che nei miei spettacoli tutto sommato si parli, sì, di politica ma si parli più dello stato d?animo di un certo periodo, di quello che è la gente in un certo momento della storia, di quello che siamo noi. Doninelli: Una persona che usa le parole come fa lei, per comunicare, si è mai imbattuta nel pericolo che le proprie parole possano fare del male, possano non comunicare più niente? Pensiamo a tutto quello che ci circonda, come la pubblicità. In che modo è invece possibile recuperare la parola al suo valore? Gaber: Anni fa io sapevo benissimo, o perlomeno immaginavo bene, quale era il pubblico che veniva a vedere i miei spettacoli: era un pubblico abbastanza omogeneo e riconoscibile che in genere mi accoglieva con affetto e usciva con molti dubbi, problemi e discussioni. I miei camerini erano pieni di gente che chiedeva: perché dici questo o quello, che invece non è vero? Ricordo il finale di uno spettacolo, Polli d?allevamento, in cui mi hanno gridato veramente di tutto e io per lo shock sono rimasto fermo per due anni e non ho lavorato. Perché d?estate quando uno scrive è molto coraggioso ma d?inverno quando si recita si è molto meno coraggiosi, e così si rimane sotto shock per la reazione del pubblico. Ora il pubblico è diverso, non so bene perché venga a vedermi, e non lo conosco; è molto disomogeneo, ma alla fine dello spettacolo il consenso è abbastanza generale, sono tutti d?accordo: dunque è cambiato completamente. Questo non so se sia un bene o sia un male, però è un fatto. Io ho la sensazione, ma magari è una sensazione falsa, che la comunicazione sia avvenuta, che le parole, per tornare al tema iniziale, abbiano in qualche modo toccato, non dico inciso. Abbiano toccato, abbiano creato un terreno nuovo, che si siano aperti degli spiragli diversi da quando la gente è entrata in teatro. Doninelli: Quando ho cominciato a pubblicare romanzi, in tanti mi dicevano che non valevo niente, adesso mi dicono quasi tutti che sono bravo. Capisco che c?è la tentazione di farsi usare, perché quando uno ti dice “bravo, bravo”, ti piace. In realtà è peggio di prima, perché se uno ti dà dell?imbecille, è così poco gratificante che la tua libertà è più facile che si salvi. Gaber: Il fatto, caro amico, è che voi che scrivete libri e articoli, scrivete ma non ci siete. Siete molto malridotti, nel senso che la gente non vi conosce e non vi accetta, e se lo fa è solo per quello che avete scritto, ma non vi accetta come persone, per cui in effetti siete accettati per metà e forse anche meno. Il teatro, viceversa, ha una comunicazione molto più forte: le prime volte che io lo facevo, avevo la sensazione che il pubblico accettasse tutto, la mia andatura un po? claudicante, il mio fisico, la mia voce, il mio naso, e ciò non è poco. Non è poco sentirsi accettati così totalmente. Solo a quel punto si aggiunge quello che dici e come lo dici, se sei capace o meno di dirlo. Voi scrittori il fisico non l?avete, noi sì: è il mio fisico, la mia voce che contribuisce, per esempio, a far passare un certo tipo di discorso, un certo tipo di ragionamento! Io non so se qualcuno di voi sia mai salito su un palcoscenico con giù della gente qualunque: appena uno sale sul palcoscenico e comincia a camminare si sente osservato, scopre che ha le scarpe sporche, che è vestito male. Si accorge di una serie di cose che nella vita non capitano e che sono un esame fisico micidiale. A quel punto la reazione rispetto alla gente che ci guarda è decisiva, perché se uno nasconde ancora di più questi particolari, s?infila in un guaio peggiore. Il giocarsi a tutto campo fuori, con grande sincerità è molto meglio che cercare di nascondersi. Doninelli: Pier Paolo Pasolini era uno che scriveva romanzi, articoli, poesie, testi teatrali, faceva film, però c?era anche la sua faccia, la sua presenza fisica sul teatro del mondo, perché quando lui andava in televisione era teatro anche la televisione, nel senso che non era l?intellettuale intercambiabile ; come dire, è la persona che è unica o no? Non solo il fatto che si fa teatro, ma perché c?è questa totalità della persona che diventa presenza. Gaber: Se lei mi parla di Pasolini, io dico che Pasolini era una personalità talmente forte che probabilmente teneva sempre; altri tengono meno, Baricco ad esempio, è uno gradevole, in pubblico tiene bene, anche troppo, nel senso che forse è troppo carino, quindi su un palcoscenico bofonchia gradevolmente, non so se potrebbe dire cose incazzate, perché sembra che non si incazzi! Doninelli: A me piace molto la Canzone dell?appartenenza. Secondo me oggi è molto forte l?idea di appartenenza come a una tribù. Appartenenza come fatto etnico, ma anche come un fatto angusto; invece lei quando parla dell?appartenenza parla di un?altra cosa, che non è l?angustia etnica, che odia tutti quelli che la pensano in un altro modo. Dice “è avere gli altri dentro di sé”. Gaber: Sono anch?io curioso di questa canzone, sono curioso, ad esempio, perché è piaciuta molto a CL; io non ho fatto nulla perché piacesse a loro, è stata una coincidenza curiosa, sono stato anche citato da don Giussani, questo mi ha lusingato naturalmente, ci mancherebbe altro. Io ritengo che non esista nucleo sociale, piccolo o grande che sia, che possa stare insieme se non ha questo senso dell?appartenenza, cioè del fare parte di una determinata realtà. Non so se questo sia riscontrabile perché viviamo in una società individualista, però ho la sensazione che ognuno dentro di noi abbia bisogno dell?altro, quindi il poter dire “noi” cambia la dimensione del rapporto con la vita. Chiunque abbia una carica pubblica e non abbia questo senso di appartenenza a quello che sta facendo, diventa dannosissimo: questo signore seguirà soprattutto i suoi interessi e sarà sempre portato a favorire se stesso rispetto agli altri. Doninelli: Però lei non avverte anche l?esistenza di un altro modo di dire “appartenenza”, più bieco? Gaber: Sì, è bieco, ma fa sempre parte dei bisogni dell?uomo, anche se in questo caso ha un risvolto di carattere negativo. Questa appartenenza etnica, tribale, xenofoba eccetera, ha comunque il senso e il bisogno di sentirsi un gruppo: è un bisogno che può prendere risvolti negativi e altri positivi. Perché questi risvolti siano positivi evidentemente ci deve essere un?appartenenza di persone, di intenti, di anime. Domanda dal pubblico: Lei parla molto di comunicazione, ma a me sembra che, anche nel mondo dello spettacolo, la comunicazione oggi sia ridotta al minimo. Parlo anche dei comici che si vedono in tv. Gaber: Secondo me ha ragione, la comunicazione in realtà funziona pochissimo: la gente parla sempre meno e parla di cose sempre più futili. Con i miei spettacoli voglio indurre la gente a parlare di più. Invece ci sono gli spettacoli dove alla fine del primo tempo il pubblico si alza per andare a fumare una sigaretta e parla dei fatti suoi, come se non avessero visto lo spettacolo ma fossero passati di lì un attimo. Ecco, nei miei spettacoli spero che questo non avvenga, neanche alla fine. Se fossero utili anche soltanto per riaprire un dialogo, per riaprire quindi un modo di parlarsi e di affrontare le cose, i miei spettacoli avrebbero già un merito. Domanda dal pubblico: Perché l?hanno spesso accusata di qualunquismo? Gaber: Il tema del qualunquismo mi piace molto, perché mi perseguita, sia quando non facevo le canzoni impegnate, sia quando ho iniziato a scrivere le canzoni impegnate, sia quando ho fatto canzoni più personali: cioè qualunquista, sempre. Siccome me lo dicono sempre, ora non mi meraviglio più di questa etichetta che mi affibbiano. Qualunquista è un termine becero, secondo me molto superato, perché si rifà al vecchio partito dell?Uomo Qualunque. Dato che io effettivamente non mi sono mai collocato chiaramente né da una parte né dall?altra, allora mi chiamano qualunquista! È giusto, lo accetto con piacere. Domanda dal pubblico: Mi ha colpito molto l?importanza che lei dà al poter comunicare il suo pensiero. Lei ha affermato il valore del teatro come spazio e ambito in cui questo può accadere. Anch?io, quando vengo ai suoi spettacoli, mi sento bene, ho bisogno di ascoltarla e mi sembra di avere la possibilità di mettermi in comunicazione, di ?pensare insieme?. Le chiedo se questi pensieri nascono nell?individualità più profonda o da un rapporto con altre persone? Gaber: Le origini possono essere molto diverse: uno spunto può dartelo una persona con cui parli, un libro che leggi o una situazione che vedi. Quindi queste piccole scoperte si trovano per strada, si trovano nella gente, si trovano nel percorso che stai facendo. Da lì viene l?elaborazione, perché magari non è immediatamente una scoperta, è solo un piccolo allarme. Quando vedi qualcosa in televisione, senti qualcosa che non va, ti viene da dire: c?è qualcosa che non torna, bisogna ragionarci sopra e chiarire il punto. Quindi anche se non è un dialogo, c?è sempre un dialogo perché chi fa questo mestiere riceve dalla gente, non è che viva da solo. Riceve segnali dall?esterno e poi cerca di tradurli e di restituirli al pubblico. Non è che partono dal nulla! Partono sempre da situazioni concrete! Domanda dal pubblico: Volevo chiederle la differenza tra le molte parole che sono dette, da cui veniamo bombardati, e le sue, che hanno la forza di imporsi come cose. Forse le sue nascono dal desiderio di comunicare un?esperienza? Gaber: Siamo invasi dalle parole, però sono parole dette senza scopo, senza bisogno di comunicare nulla. Mentre le parole che io cerco di dire sono parole che hanno sotto il desiderio di una comunicazione, di una conoscenza in più! Ecco è questa la differenza, la ringrazio. L?incontro di Giorgio Gaber con i giovani si tenne a Milano nella primavera del 2000. L?incontro faceva parte di un ciclo organizzato dal Centro culturale di Milano, di via Zebedia, che ne ha gentilmente concesso a Vita il permesso di pubblicazione. Il testo integrale dell?incontro può essere letto, e scaricato, sul sito del Centro: Centro Culturale di Milano Il mio Gaber preferito Edo Patriarca Destra Sinistra Tutti noi ce la prendiamo con la storia, ma io dico che la colpa è nostra; è evidente che la gente è poco seria quando parla di sinistra o di destra Edo Patriarca, portavoce del Forum del Terzo settore, ha 50 anni e ascolta Gaber fin dall?inizio della sua carriera “ma devo dire”, confessa, “che l?ho apprezzato di più nella sua fase matura, quella del Gaber sconfitto, ma sempre vigile e attento”, quando “insieme abbiamo vissuto il travaglio di una sinistra che non ha mai rotto gli ormeggi con le sue radici storiche” e così facendo “ha deluso un?intera generazione, tradendo la possibilità di costruire un mondo realmente diverso”. “Oggi ho di lui un ricordo caldo, di un uomo libero e ironico, capace di prendere in giro i potenti: un intellettuale, un cantante, un poeta, un amante e un instancabile osservatore della vita”. Ma chi è stato Gaber per Patriarca? “Un giullare del nostro tempo, e come tale, tenuto a debita distanza sia dalla destra che dalla sinistra. Ai potenti non piace chi critica lo status quo e le posizioni consolidate e conservatrici. A me piace ricordarlo come il ?cantattore? della buona società, che crede ancora che la felicità si giochi sui tempi lenti, sulla buona battuta e sulle buone amicizie. In questo contesto forse non è azzardato ricordarlo anche come il cantore del volontariato, del non profit e dell?associazionismo”. Un artista, in ogni caso, in grado di raccontare la vita in modo completamente originale, “e proprio nella capacità di mettere in scena il disagio di un?intera epoca in maniera non populistica, non strillata come è di moda ultimamente con i vari girotondi, risiede la sua grandezza”. C?è un altro personaggio che possa raccogliere il testimone di Gaber? “No, non credo proprio. Non c?è nessuno interprete in voga oggi che gli si possa avvicinare”. Anche se i giovani di oggi poco sanno del signor G. “Purtroppo”, chiosa Patriarca, “è così. I miei due figli, uno di 21, l?altro di 18 anni, sanno a mala pena chi fosse Gaber e non hanno mai sentito una sua canzone. Son altri tempi, ma sicuramente loro si sono persi molto.” il mio Gaber preferito Tom Benetollo Lo shampoo Una brutta giornata, chiuso in casa a pensare, una vita sprecata, non c?è niente da fare, non c?è via di scampo, quasi quasi mi faccio uno shampoo. Sono abbastanza vecchio per ricordarmi e aver amato anche il Gaber degli anni 50. A dire la verità, da ragazzo ero un rollingstoniano e non un beatlesiano, ma m?innamoravo anch?io e dunque una canzone come Non arrossire mi piaceva. Giorgio Gaber scriveva, anche allora, canzoni acute, anticonformiste, molto libere, anche quando avevano un aspetto goliardico. Poi, certo, con la svolta del teatro-canzone dei primi anni 70 la cosa è diventata molto seria. Il fatto è che una canzone come La libertà è partecipazione è diventata davvero un manifesto, più che una canzone ed è molto importante per chiunque lavori nel campo del sociale e della solidarietà, tutti i giorni. Poi, certo, Gaber aveva una personalità complessa, spesso lontana anche dalle corde della maggioranza imperante. Ecco perché il suo rapporto con la politica, più che con la sinistra, è stato così difficile, tormentato, ma anche molto forte e partecipe. Lo Shampoo, ad esempio, è una canzone magistrale, minimalista ma sublime. Anche da canzoni e storie come quelle c?è da imparare, non solo in quelle, che pure ho amato tantissimo, e che raccontavano così bene le periferie. La verità è che Giorgio Gaber ci serve, ci è utile nel nostro lavoro e ce lo porteremo con noi, nel nostro cammino, nel nostro futuro. il mio Gaber preferito Salvo Pettinato Le strade di notte Le strade di notte mi sembrano più grandi e anche un poco più tristi; è perché non c?è in giro nessuno. Voglio correre a casa, voglio correre da te e dirti che ti amo, che ho bisogno di te. Salvo Pettinato ha una grande passione: la musica. Tanto che negli anni 70 ha fondato una delle prime associazioni dedicate ai Beatles. Ma per rimanere a casa nostra, la sua passione ha un nome e cognome: Giorgio Gaber. Vita: Pronto, avvocato, ci racconta che cosa era per lei il signor G.? Pettinato: Guardi, io sono veramente affranto. Sono giorni che non riesco a togliermi dalla testa che Gaber non c?è più. Vita: Da dove nasce tanto affetto? Pettinato: Da quello che lui era, per il tipo che era, per le cose che ha detto e per le cose che ha fatto. Da che altro se no? Vita: Quale l?aspetto del signor G. in cui si rivede maggiormente? Pettinato: Nella capacità di far coincidere la ricerca per se stesso con la ricerca dell?amore. Gaber era una persona che ha amato molto. Che per amore ha tollerato persino una moglie che milita in un partito lontanissimo da lui sotto tutti i punti di vista, senza che questo toccasse anche solo minimamente la profondità delle sue vedute. Vita: In tanti lo hanno descritto come un pessimista. Cosa ne pensa? Pettinato: Io ho 53 anni e come me molti della mia generazione sono rimasti senza partito, senza convinzioni, senza fiducia. Lui ha ricordato a tutti noi che se vuoi essere veramente sincero, veramente essenziale devi allontanarti dal falso. Lui aveva questo potere: la capacità di allontanarsi. Vita: Per scappare da cosa? Pettinato: Da nulla, diamine! Non facciamo l?errore di pensar male di chi si allontana. Il suo mettersi in un angolo significava chiedere con forza a chi resta di fare delle alzate di genio per recuperare il senso centrale delle cose. Lui identificava il male per generare il riscatto. Questo non è pessimismo o nichilismo, come vogliono far credere i perbenisti. Troppo comodo etichettare e isolare chi identifica il male e aiuta l?uomo a recuperare se stesso. il mio Gaber preferito Aldo Bonomi Vola, vola: il signor G e le stagioni Tiepido il sole ci annuncia che la primavera ci porta i suoi fiori ma il nostro pensiero è lontano e già corre all?estate che presto verrà. E quando il caldo ci stanca sogniamo l?autunno e i suoi tenui colori e poi, poi ritorniamo in inverno e tutto di nuovo comincerà. Vola, vola, cerca il tuo tempo perduto. Vola, vola, cerca la felicità. Per il sociologo Aldo Bonomi il rapporto con la musica e la poesia di Giorgio Gaber è “qualcosa di intimo e privato, difficilmente spiegabile e anche un po? imbarazzante da tirare fuori”. La grandezza del cantautore (“dell?uomo del racconto”), secondo Bonomi poggia su due pilastri: l?interpretazione del fenomeno sociale in termini personali e la facoltà di provocare emozioni forti con un linguaggio sussurrato, mai sopra le righe. Capacità che oggi manca in molti suoi colleghi, “ma che forse rivedo in Van de Sfroos”. Un artista unico, come unico è stato il signor G. “E solo dei cretini possono tacciare di qualunquismo chi, come Gaber, parla dell?uomo qualunque, come solo dei cretini possono ritenere leghista chi dà voce in dialetto ai soggetti muti, i nuovi ultimi della ricca Lombardia”. Bonomi, infine, vede in Gaber una risorsa culturale e intellettuale per non lasciare che le masse restino in balia di stereotipi “che poi inevitabilmente determinano consumi e conflitti”. il mio Gaber preferito Riccardo Bonacina Non insegnate ai bambini Non insegnate ai bambini/ non insegnate la vostra morale/ è così stanca e malata/ potrebbe far male/ forse una grave imprudenza/ è lasciarli in balia di una falsa coscienza. (?)./ Non insegnate ai bambini/ ma coltivate voi stessi il cuore e la mente/ stategli sempre vicini/ date fiducia all?amore il resto è niente. Non insegnate ai bambini, la canzone inedita di Gaber diffusa come suo ultimo e definitivo saluto al termine di una partecipatissima cerimonia funebre, ci offre un significativo pertugio e spiraglio attraverso cui rileggere in maniera nuova e più libera il suo sterminato Canzoniere minimo (così, significativamente, intitolò una sua trasmissione musicale nel 1963). “Coltivate voi stessi il cuore e la mente/ date fiducia all?amore il resto è niente”; è come se in questi due versi fosse racchiuso una volta per tutte il senso dell?infinita ballata di Gaber, delle sue canzoni che abbiamo amato e cantato, e anche di quelle che abbiamo fatto fatica non solo a canticchiare, perché difficili, ma persino a digerire perché ci sembrava di cantar contro noi stessi. Altro che pessimista, qualunquista o anarchico, Giorgio Gaber ha passato la sua vita a smontare pezzo a pezzo con l?intelligenza, l?ironia, la musica, il suo modo totale e sacrificale di stare sul palcoscenico, le risposte facili alle domande più profonde e più vere. E lo ha fatto con vero amore, innanzitutto verso se stesso, verso la vita, sua e di chi lo stava ad ascoltare. In uno dei suoi ultimi e più iconoclasti dischi, La mia generazione ha perso, se n?è uscito con una canzone dolcissima come Verso il terzo millennio, vero atto di amore alla vita: “Ma io ti voglio dire che non è mai finita, che tutto quel che accade fa parte della vita”. Il suo è stato un viaggio alla ricerca della nota più vera della vita. In L?attesa (1982) cantava: “Non muovetevi, c?è un?aria stranamente tesa, siamo come in attesa. Non disturbatemi sono attirato da un brusio che non riesco a penetrare, non è ancora mio”. Per me andarlo ad ascoltare, conversare con lui, partecipare a una prova era come sottoporsi a un vero shampoo intellettuale e interiore contro tutte le pigrizie, le banalità, le risposte facili, era come “coltivare il cuore e la mente”. Perciò, da lui si accettava che mettesse in discussione tutto, anche i nostri punti di vista più convinti come in Il sociale e Il potere dei buoni.


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