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L’America e le sabbie mobili della guerra

L'editoriale di Giuseppe Frangi sulla situazione degli Stati Uniti a pochi mesi dalla conclusione della guerra in Iraq.

di Giuseppe Frangi

Che cosa succede a Bagdad? Quattro mesi dopo il magico 9 aprile, dopo i sorrisi e gli annunci di vittoria, qualcosa non torna più in quella che è stata la guerra meno combattuta della storia. Ci spiega l?inviato del Corriere della Sera che i marines ormai non osano neppure più andare alle bancarelle a chiedere un kebab. Che vittoria è questa? E soprattutto come uscirà il più grande esercito del mondo da un dopoguerra più insidioso di una guerra? Problemi che riguardano lo Stato maggiore americano, si dirà. No, non è così. Le debolezze e le paure del gigante devono inquietare quanto i suoi gesti di arroganza. A metà luglio, con 95 voti su 95, il senato Usa ha votato il nuovo budget per la difesa: 368,6 miliardi di dollari, esclusi gli stanziamenti per Iraq e Afghanistan.
Alla fine, sommando tutto, la spesa militare potrebbe superare quella ormai colossale del deficit di bilancio: 455 miliardi di dollari. E questo è un altro numero che denuncia la fragilità del gigante. I bilanci di molti Stati sono sull?orlo del crack. I livelli, seppur minimi, di welfare non sono più garantiti da un gettito fiscale che non copre le esigenze di una natalità in grande aumento. Alan Greenspan, presidente delle Federal reserve, ha ammesso che “negli Stati Uniti nel 2010, 2011, 2012 ci saranno seri problemi riguardo al debito”.
L?America, come i suoi marines lasciati nel limbo iracheno, sembra un grande Paese in panne, scaraventato allo sbaraglio da un manipolo di governanti tanto incapaci quanto cinici, che per giustificare le loro scelte non sono stati neppure capaci di creare uno straccio di prova credibile. L?America oggi si rivela un Paese vittima dei suoi pasdaran, che avevano gridato alla vittoria, e che oggi non sanno spiegare come un Paese ?liberato? si ribelli ai suoi ?liberatori?. Risultato: oggi in Iraq ci sono 150mila soldati americani, a settembre non c?è stato il previsto ritiro (avrebbero dovuto restarne 50mila), e ora il comandante John Abizaid ne chiede 160mila. Tanto che il Pentagono, per tamponare le perdite, farebbe ricorso all?incredibile soluzione di privatizzare l?appalto della sicurezza in 2mila siti sensibili sul territorio iracheno. E nel frattempo l?opinione pubblica comincia a vacillare: spendere 4 miliardi di dollari al mese senza nessuna prospettiva di soluzione del conflitto strisciante, sembra di giorno in giorno più ingiustificabile.
Insomma, per la più grande potenza del pianeta, il bilancio rischia di essere drammaticamente fallimentare. Come hanno detto i cervelli del Centro studi strategici di Washington, un think tank che raccoglie studiosi repubblicani e democratici, gli Usa che hanno vinto la guerra non hanno saputo vincere la pace, e ora rischiano di infilarsi in “una terza guerra del Golfo, questa volta contro il popolo iracheno”. Lo spettro della guerra infinita, così sprezzantemente irriso dai tanti pasdaran a stelle e strisce, sta diventando sempre più reale. Ma questa è una guerra che tra le sue vittime potrebbe avere anche la superpotenza assediata dalla paura, incapace di intessere un dialogo e di capire le ragioni degli altri.
Ecco perché le ragioni di chi ha gridato per mesi che questa era una guerra inutile, con il passare dei giorni appaiono sempre più ?ragionevoli?. Anche, e forse soprattutto, dal punto di vista americano.

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