Volontariato

L’Albania si ferma a Pisa

Nei giorni dei rimpatri forzati, 183 albanesi sono riusciti a restare nel nostro Paese. Clandestini? Macché. Ospiti della città della Torre che gli ha anche trovato lavoro

di Giampaolo Cerri

«No Albania, meglio morire». Approssimandosi l?ora del rimpatrio, anche nelle colonie marine Barellai e Nannini di Tirrenia, è risuonato l?urlo disperato degli immigrati. Alcuni avevano iniziato lo sciopero della fame, altri attendevano rassegnati vedendo sgretolarsi il sogno di un?esistenza migliore. E invece i 183 albanesi del campo di Pisa, caso pressoché unico in Italia, sono rimasti. Alcuni, una settantina, hanno ottenuto asilo politico e permessi di soggiorno per curare familiari gravemente ammalati. Gli altri sono riusciti a sfruttare i tre giorni concessi dal ministero degli Interni per le regolarizzazioni e per trovare lavoro. Ogni capo famiglia è infatti riuscito a trovare un lavoro. Un miracolo nella città della piazza dei Miracoli? No, semplicemente il lieto fine di una storia che ha visto lavorare assieme istituzioni, amministratori, volontari; come raramente accade. Un?esperienza che ha pesato anche a livello nazionale, come quando, il 14 novembre, l?arcivescovo di Pisa, monsignor Alessandro Plotti aveva preso carta e penna scrivendo ad amministratori locali e parlamentari eletti nei collegi del pisano. Il prelato ricordava il problema della comunità albanese, dei suoi diritti, del dovere dell?accoglienza. Un invito a graduare gli interventi, a pesare i provvedimenti, a rispettare i bisogni. E anche un appello pressante alla solidarietà: «Diamogli un lavoro», aveva più volte, accoratamente, ripetuto. Una sollecitazione raccolta da Mauro Paissan, deputato verde-Ulivo della zona, che con altri parlamentari la trasformava in un vero e proprio ordine del giorno approvato alla Camera. Antonio Sconosciuto, ventisei anni, pochi esami alla laurea in chimica, i 183 di Tirrenia li conosce uno per uno. Da marzo è impegnato con la Caritas pisana sul fronte di questa emergenza. Può dare nome e cognome alla bambina di sei anni che ha già avuto tredici interventi chirurgici, a quella di tre che, sorda dalla nascita, non ha imparato a parlare; agli altri disabili o sofferenti. E, insieme ai volontari dell?Agesci e dell?Arci che hanno lavorato nei campi, ha vissuto i momenti più belli, come la nascita di Angela e Sara, figlie della speranza e della voglia di vivere. Fa volontariato da sempre Antonio, prima in parrocchia poi negli istituti di ricovero per anziani. Ormai è un veterano, ha già affrontato l?emergenza regolarizzazioni del decreto Dini e l?alluvione in Versilia. Da primavera lavora allo ?sportello? creato per gli albanesi. Giorno dopo giorno ha visto sofferenze, ha conosciuto le attese, ha raccolto le speranze di queste famiglie. Accanto a loro ha continuato a sperare contro ogni speranza. E ha gioito, quando i posti di lavoro sono arrivati. Antonio ha partecipato direttamente a molti colloqui: le offerte di lavoro sono arrivate alla spicciolata, suscitate dall?appello dell?arcivescovo e dalle drammatiche immagini dei campi sgomberati a forza. Idraulici, elettricisti, famiglie alla ricerca di collaboratori domestici, ristoratori, industriali del mobile, piccoli imprenditori, molti pisani sono affacciati al campo per dare la forma più concreta di solidarietà: un lavoro. «Per uno dei casi più drammatici: una famiglia con una bambina gravemente ammalata», spiega Antonio, «siamo riusciti a trovare un posto di magazziniere per il padre e un alloggio per tutti». A pagare l?affitto ci penseranno alcune famiglie pisane, che si sono tassate a questo scopo. Una solidarietà che è maturata «perché volontari, istituzioni, amministratori hanno voluto mantenere, sin dall?inizio, un dialogo aperto con la città». E ricorda anche come la presenza degli immigrati non abbia dato origine a nessun incidente. «La gente del campo si è dimostrata subito ragionevole», ricorda, «si è presto data una vita comunitaria: rappresentanti, turni per le pulizie e per i servizi collettivi. Nessuna fuga e rispetto attento delle regole. Gente fiduciosa che aspettava una soluzione giusta». Per don Claudio Desii, giovane direttore della Caritas pisana, il nodo di questa vicenda è stato il lavoro congiunto di istituzioni, amministrazioni locali e forze sociali. «È ciò che ha permesso di acquisire una visione culturale dei problemi e una capacità politica di dare risposte». Fondamentale, per i volontari della Caritas, anche il ruolo della prefettura e della Polizia: «Gente che ha fatto il proprio lavoro con grandissima umanità», ricorda Antonio, «ho visto funzionari pieni di sgomento perché chiamati a compilare le liste dei rimpatri: ogni nome che scrivevano era per loro un volto, una storia, una speranza». Antonio, studente di chimica che ha trovato fra gli ultimi la formula della sua vita, pensa che da questa vicenda si possa trarre una lezione: «Accompagnare ogni immigrato, vale a dire realizzare una buona accoglienza da parte di tutti gli enti con cui ha a che fare, porta a un inserimento pieno della persone che diventa una risorsa, anche economica, della nostra società». Per don Claudio il punto di svolta di tutta la vicenda è stato nella primavera scorsa, nei primi giorni dell?emergenza, quando l?arcivescovo è andato nel campo di Tirrenia. «Il venerdì santo la gente era agitata, c?era stata la tragedia del canale di Otranto», ricorda, «la Polizia circondava il campo ma due giorni dopo l?arcivescovo ha potuto celebrare la Pasqua fra gli immigrati». Da quel momento in poi, molto è cambiato a Pisa: è morto il pregiudizio ed è risorta la solidarietà. I numeri 600 albanesi rimasti in Italia perché irreperibili. 1.400 rimpatriati a dicembre. 400 regolarizzati con permesso di soggiorno. 86 centri di accoglienza chiusi tra novembre (51) e dicembre (35). 2.800 albanesi tuttora alloggiati presso parenti e amici, da rimpatriare.


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