Economia

Krugman, l’economistabche non dà i numeri

Nobel Il premio allo studioso americano era il miglior premio possibile

di Redazione

Ha sfatato l’idea che le formule matematiche spieghino e risolvano tutte le dinamiche economiche. Perché l’osservazione e la geografia a volte aiutano di più Q uante volte abbiamo fatto l’esperienza di studiare una lingua straniera a scuola per anni, e poi, non appena provavamo a imbastire un breve colloquio con un “vero” straniero, accorgerci che tra la grammatica e la sintassi imparate a scuole e il parlare una lingua c’era una grossa differenza! È questa la stessa esperienza che i nostri studenti fanno quotidianamente quando provano a passare dalla grammatica e la sintassi apprese a lezione (modelli, grafici, matematica ?) al “parlare economia” utilizzando quegli strumenti per comprendere un fenomeno economico, o la crisi attuale. Molto, troppo, spesso tra gli strumenti appresi in classe e la vita economica c’è un salto incolmabile.

“Parlare economia”
Paul Krugman è un economista americano di 55 anni (pochi per un Nobel!) che oltre a produrre strumenti (e di alta qualità scientifica) non ha mai smesso di “parlare economia”, di sforzarsi di utilizzare i suoi strumenti, e quelli della scienza economica, per comprendere il mondo, le crisi, la globalizzazione, la geografia economica. Da decenni, infatti, Krugman scrive su importanti quotidiani e periodici americani, e ha dedicato parte delle sue energie a scrivere manuali per studenti, di grande successo anche in Italia.
Non appena ricevuto il Nobel, Krugman ha affermato di «essere scioccato dalla notizia», e con lui un po’ anche noi che lo conoscevamo, perché da diversi anni non si assegnava un Nobel per l’economia ad uno studioso che fosse anche comunicatore e divulgatore di conoscenza, e che si occupasse di problemi che tutti i cittadini considerano immediatamente rilevanti per la loro vita (l’ultimo premio Nobel di questo tipo è stato, credo, assegnato ad Amartya Sen esattamente dieci anni fa).
L’economia scientifica, infatti, sta progressivamente perdendo contatto con la tradizione, soprattutto anglosassone, del “commonsense”, vale a dire del “buon senso” (noto è il titolo di un libro dell’importante economista inglese Philip Wicksteed: The commonsense of political economy , 1910).
Fino alla seconda guerra mondiale, fino a Keynes, Hayek o a Schumpeter, i dibattiti tra economisti, anche quelli più tecnici, erano oggetto di diatribe pubbliche, finivano sui quotidiani, ed erano comprensibili e rilevanti per uomini di affari, politici, intellettuali. Alfred Marshall, nel 1890, affermava di scrivere per i businessmen inglesi, e nei suoi libri non si trovano formule, sebbene egli fosse un valente matematico. Quella generazione di economisti pensava che la matematica fosse utile all’economista, ma poco ai lettori; un atteggiamento intellettuale analogo a quello di Congar riguardo lo studio della teologia: «La teologia serve al predicatore, non alla predica».
La forte matematizzazione dell’economia ha poi sempre più allontanato gli economisti di professione, e i loro giornali, dalla gente, dal commonsense. Ma resta sempre vero ancora oggi un detto che girava tra gli economisti dell’Ottocento, da Mill a Pareto: «Un economista che è soltanto economista, è un cattivo economista».
Krugman è un ottimo economista, da premio Nobel, proprio perché non è “soltanto” un economista. La stessa motivazione del premio della giuria di Stoccolma sottolinea questo modo “promiscuo” di fare teoria economica: il Nobel gli è stato assegnato per «la sua analisi dei patterns del commercio e la localizzazione dell’attività economica». Krugman ha infatti dimostrato che nel commercio internazionale (il suo settore di analisi preferito) i mercati non sono perfetti, si formano oligopoli, e ciò avvantaggia le grandi imprese che tendono a diventare sempre più grandi e più “vicine” tra loro.

I padroni del know how
In particolare Krugman ha dimostrato che l’antica teoria del commercio internazionale (quella di David Ricardo, 1817) basata sui cosiddetti costi comparati, con la globalizzazione non funziona più: in che senso? La teoria tradizionale del commercio affermava che ogni Paese doveva specializzarsi nella produzione nella quale aveva un vantaggio relativo: il carbone per il Belgio, la lana per l’Inghilterra. Inoltre, si dimostrava che all’Inghilterra conveniva specializzarsi nella lana anche se in termini assoluti le sarebbe convenuto produrre anche il carbone in patria. È la stessa teoria, ancora valida, che consiglia ad un avvocato che è anche un buon dattilografo, di assumere una segretaria, anche se più lenta di lui, poiché il tempo che egli risparmia non battendo a macchina lo può usare in modo più produttivo.
Questo antico meccanismo entra in crisi con la globalizzazione, con la mobilità dei lavoratori, con la riduzione dei costi di trasporto, e con la complessificazione dei gusti dei cittadini. Così osserviamo che i Paesi più sviluppati in tecnologia tendono a scambiare tra di loro e ad emarginare sempre più i Paesi meno avanzati: Germania e Italia, ad esempio, esportano e importano auto l’una dall’altra, un fenomeno che accompagna, e in parte controbilancia, la tendenza delle imprese a delocalizzare. Da qui deriva la concentrazione anche geografica delle imprese in luoghi dove il know-how, il “capitale umano” e le informazioni sono concentrate, soprattutto in alcune grandi città (Londra, New York, Hong Kong?). La geografia, anche in un mondo sempre più omogeneo e fatto di non-luoghi, è ancora importante!
Certo l’economia ha bisogno anche di modelli matematici e di teoria dei giochi (che tra l’altro Krugman usa e conosce bene), ma ben vengano economisti che ci spieghino la crescita delle città, il commercio internazionale, la dinamica delle grandi imprese: sono faccende, non solo economiche, da cui dipende direttamente la qualità della nostra vita.


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