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Kosovo, una pace necessaria anche per la Serbia
Dopo il ferimento di 41 militari della Kfor il 29 maggio, la Nato ha deciso di inviare altri 700 soldati, 500 dei quali turchi. Ankara dovrebbe assumere il comando della missione mentre Stati Uniti ed Unione europea fanno pressione sul premier kosovaro Albin Kurti affinché ripeta le elezioni di aprile boicottate dai serbi in 4 comuni, alla base dell'ultima crisi. La società civile di Mitrovica lancia un appello per una pace che è molto importante per un Europa già alle prese con la guerra in Ucraina ma anche per Belgrado e le sue aspirazioni europee
di Paolo Manzo
Con tutti gli occhi puntati sulla guerra in Ucraina, non è stata prestata sufficiente attenzione a un altro conflitto cronico nel cuore dell'Europa che, ancora una volta, minaccia di aggravarsi. Si tratta del Kosovo dove la scorsa settimana la Nato ha deciso di inviare altri 700 soldati, 500 dei quali turchi della 65a brigata di fanteria meccanizzata che dovrebbero assumere il comando della missione, in risposta a diversi giorni di rivolte in quattro città nel nord del paese.
L’ultima miccia che ha scatenato tensioni e scontri in Kosovo sono state le elezioni tenutesi il 23 aprile scorso, organizzate da Pristina nonostante i rappresentanti serbi si fossero ritirati da tutte le istituzioni per protestare contro la decisione del primo ministro Albin Kurti di sostituire le targhe serbe delle auto con quelle kosovare. A causa del boicottaggio nelle città di Mitrovica Nord, Zveçan, Zubin Potok e Leposavic, i candidati di origine albanese sono stati eletti sindaci con appena il 3,47% di affluenza.
Non bastasse, nonostante le pressioni di Unione Europea e Stati Uniti, a fine maggio i sindaci «eletti» hanno occupato i municipi scatenando la reazione della popolazione locale serba che ha cinto d'assedio gli edifici pubblici. Gli scontri tra la polizia kosovara, la missione Nato della Kfor e la comunità serba che vive lì, hanno portato al ferimento di 41 militari, tra cui 14 italiani.
La NSI, New Social Initiative, organizzazione della società civile che opera in Kosovo per favorire l'inclusione, la costruzione della fiducia e i processi di democratizzazione tra i cittadini di tutti i gruppi etnici, ha subito lanciato un appello per la pace che potete leggere qui integralmente. Tra le richieste «ai rappresentanti dell'Unione Europea, degli Stati Uniti d'America, della Germania, della Francia, dell'Italia e della Gran Bretagna» quella di «esercitare pressioni sul governo Kurti affinché attui le misure necessarie per garantire la pace». A cominciare dal «ritiro di tutte le unità speciali di polizia dal nord del Kosovo, il cui comportamento genera paura e turbamento tra le popolazione locale. L'assenza di una reazione adeguata al loro dispiegamento nel nord su terreni confiscati violentemente e ingiustificatamente, ha trasmesso un messaggio negativo che la militarizzazione di quest'area è consentita». Ma NSI ha chiesto anche che «i rappresentanti politici degli albanesi del Kosovo, che non hanno la legittimità democratica per rappresentare qui le comunità locali, lascino gli edifici municipali e altri edifici pubblici nei centri amministrativi nel nord del Kosovo» e che «gli attuali dipendenti delle amministrazioni locali possano accedere senza ostacoli ai loro uffici fino allo svolgimento di nuove elezioni».
Ufficialmente l’Unione europea e gli Stati Uniti hanno suggerito di tornare alla «normalizzazione delle relazioni» tra Kosovo e Serbia, come previsto dagli accordi di Bruxelles del 2013 e da quelli di Ocrida del febbraio scorso tra Kurti e il presidente serbo Aleksandar Vucic. Più facile a dirsi che a farsi. Certo è che il Kosovo sta vedendo erodere il suo sostegno estero, come dimostra un documento confidenziale dell'amministrazione statunitense che rivela come l'Unione Europea e gli Stati Uniti stiano valutando azioni punitive contro il Kosovo se il governo Kurti non prenderà misure per ridurre la tensione nelle zone calde. Il documento, fatto trapelare dai giornalisti albanesi di Euronews, spiega che sia Washington sia Bruxelles contemplano un piano di sanzioni contro Pristina diviso in due fasi. Il primo comporta il congelamento dei fondi e dei progetti americani ed europei, la sospensione dell'accordo per i kosovari di viaggiare senza visto nell'UE e lo stop al processo di adesione al Consiglio d'Europa. La seconda fase, che sarebbe avviata se Pristina continuerà a insistere sulla sua posizione intransigente, contempla l'adozione di un atteggiamento passivo da parte dei suoi alleati verso il non riconoscimento dell'indipendenza del Kosovo, una riorganizzazione della sua presenza militare mentre alcune sanzioni potrebbero colpire direttamente lo stesso Kurti. Il segretario di Stato americano Antony Blinken ha detto che il primo ministro kosovaro è da biasimare per «l'escalation delle tensioni», facendo seguire alle parole l'esclusione del Kosovo da un'esercitazione militare USA-UE. Dal canto suo, Kurti incolpa Belgrado di aver fomentato i disordini.
E’ importante ricordare che, dopo la dichiarazione dell'indipendenza nel 2008, il Kosovo è riconosciuto come stato indipendente da molti paesi (115) ma non da cinque membri dell’Unione europea, il che mette Bruxelles in difficoltà dal punto di vista diplomatico. Si tratta delle nazioni che hanno qualche rischio di secessione interna, in primo luogo la Spagna ma anche la Slovacchia, Cipro che ha la parte nord occupata dai turchi, la Romania, che ha una minoranza ungherese molto forte e la Grecia, per solidarietà con Cipro. E chiaramente non riconoscono il Kosovo neanche Mosca, Pechino e Belgrado, che affonda proprio là le radici della sua memoria, nella battaglia di Kosovo Polje del 1389 (nota anche come la battaglia della Piana dei Merli). Il secondo punto da non dimenticare è che la città di Mitrovica è divisa in due dal fiume Ibar. Nella parte nord abitano in prevalenza serbi, circa 20mila, mentre nella parte sud sono quasi tutti albanesi, circa 70mila, mentre i due ponti e una passerella di confine sono presidiati dai carabinieri italiani della MSU, l’Unità Specializzata Multinazionale dell’Arma che da oltre 20 anni partecipa alla missione Kfor con compiti di stabilizzazione. Secondo la risoluzione 1244 dell’Onu, la Kfor è incaricata di mantenere l'ordine e la sicurezza su tutto il territorio kosovaro.
Di fatto oggi la crisi del Kosovo in termini di priorità a livello europeo viene subito dopo quella dell’Ucraina, anche per il legame che storicamente lega la Serbia alla Russia e, da un punto di vista di simmetria, secondo alcuni analisti, oggi si starebbe riproducendo nei Balcani quanto avvenuto in Russia nello spazio post-sovietico. Secondo Francesco Martino, dell’Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa «ci sono forze politiche e non politiche che possono e vogliono trovare vantaggi dallo scontro. Da una parte c'è la volontà del governo kosovaro di approfittare di una situazione di instabilità generale a livello politico europeo per provare a imporsi in quella parte del territorio che fino a oggi è stata ribelle perché è popolata soprattutto da serbi. Però anche da parte serba e soprattutto del presidente Vucic, sottoposto a fortissime critiche con migliaia di persone in piazza che contestano il carattere autocratico del suo governo, ci può essere interesse a distrarre l'opinione pubblica». Stando alla situazione attuale, per Martino «la possibilità di un vero scontro militare in Kosovo è piuttosto remoto ma non si può escludere. Il fatto che siano state attaccate forze della Kfor della Nato che in questi anni sono state viste da tutte le parti in campo come un fattore di sicurezza e stabilità fa pensare ad un nuovo livello di tensione che non è da prendere sotto gamba».
Lo scenario ideale per l'Europa sarebbe quello di dare ai serbi del Kosovo abbastanza diritti e protezioni per convincere loro – e la Serbia stessa – a riconoscere lo stato kosovaro perché la speranza rimane di portare Belgrado e Pristina nell'orbita occidentale. Naturalmente Putin ha altre idee e con la sua «operazione militare speciale» che non decolla non aspetta altro che un nuovo conflitto scoppi in Europa per deviare risorse dall'Ucraina. Gli scontri dei giorni scorsi nel nord del Kosovo, insomma, potrebbero essere «i soliti disordini» ma hanno il potenziale per degenerare in una crisi molto più grande, soprattutto per l’Europa.
Foto Credit: Adam Jones, Ph.D.
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