Volontariato

Kosovo, ora riscopri te stesso

Gli interventi della giornata del 14 giugno. L’analisi del professor L’Abate e branii di alcune testimonianze

di Alberto L'Abate

La guerra non è certo il modo migliore per far convivere due popoli. Essa è al più la premessa di una spartizione dei territori su base etnica. Come è successo in Bosnia e come rischia di accadere anche nel Kosovo. La comunità internazionale si è posta l?obiettivo, infatti, di far rientrare nel Kosovo i profughi albanesi. E questo sarà forse possibile nelle zone sotto controllo delle forze internazionali di ?peace-keeping? e nelle aree dove gli albanesi erano una maggioranza. Ma sarà molto più difficile nelle aree in cui i serbi erano la quasi totalità della popolazione, a meno di non prevedere in queste aree una vera e propria occupazione militare da parte delle truppe internazionali. Il rischio che si realizzi il progetto della spartizione del Kosovo, da tempo sognato e progettato da parte dei nazionalisti serbi, con l?annessione del nord della regione alla Serbia e uno statuto di autonomia (o di indipendenza?) per il resto del territorio, è grande. Ma questo porrebbe il grosso problema della città di Pristina, in cui attualmente la popolazione serba è circa la metà mentre prima della guerra era circa il 20/25%, con intere aree urbane abitate prevalentemente da loro. Avremo una nuova Berlino divisa in due? È certo che le premesse per una convivenza pacifica tra le due etnie sono state estremamente ridotte dalla guerra (che ha incrementato notevolmente gli odi reciproci), e che sarà necessario un grossissimo lavoro di riflessione critica sul passato, di riapertura del dialogo e di ricerca di forme di riconciliazione tra i due gruppi etnici perché si possa pensare nuovamente a una convivenza pacifica nello stesso territorio, soprattutto quando si porrà il problema (quando?) dell?uscita delle truppe internazionali dal territorio. Una convivenza garantita dalla presenza da militari sarebbe infatti estremamente falsa e destinata a durare molto poco. Il dialogo può riprendere solo a condizione che ci sia un reale processo di democratizzazione di tutta l?area e che si proceda alla creazione di una entità balcanica come sub-area di una Europa Unita. Non riesco a vedere altre possibili soluzioni. In un?entità del genere, lo statuto finale del Kosovo assume una importanza relativa. Può essere una autonomia internazionalmente concordata e protetta, oppure una indipendenza alla pari con le altre entità statuali cui si leghi con rapporti confederali, ma l?elemento fondamentale è che di questa entità facciano parte non solo la Serbia, il Montenegro e lo stesso Kosovo, ma anche l?Albania, la Macedonia, forse anche la Bosnia e altri paesi vicini. Il processo di parcellizzazione della ex-Jugoslavia deve perciò finire per dare avvio a un processo opposto di riaggregazione, indispensabile non solo a livello politico ma soprattutto per quello economico. Ma tutto questo presuppone che l?Europa si affretti a diventare un soggetto politico esso stesso, e non si limiti ad una corsa per la spartizione del mercato di quest?area. Per un contributo alla ricerca della pace, alla teoria e alla pratica della nonviolenza, credo sia importante concepire in modo nonviolento il superamento delle forme statuali chiuse e ricercare forme basate sull?uguaglianza e non sulla dominanza di un Paese sull?altro. E questo all?interno di Stati dove la convivenza tra gruppi etnici e nazionali diversi non si basi sul predominio di uno sull?altro. Chi ha lavorato con la nonviolenza conosce, meglio di altri, l?importanza e le tecniche di educazione alla pace, alla convivenza tra i popoli, e al superamento dei pregiudizi interetnici. E può perciò lavorare per diffondere queste competenze tra le varie popolazioni. Queste competenze esistono già nella zona: si pensi alle lotte nonviolente portate avanti dagli albanesi del Kosovo per quasi 10 anni (dal 1989 al 1998) o a quelle organizzate dall?opposizione serba contro la falsificazione dei dati elettorali da parte del governo. Ma anche al bellissimo movimento della riconciliazione nel Kosovo che ha visto nel 1990, in pochi mesi, riconciliare oltre 1250 famiglie legate tra loro da un patto di vendetta, superato grazie alla rivalorizzazione del principio del perdono e della riconciliazione che facevano parte dello stesso codice. La maggior parte di queste riconciliazioni erano avvenute tra appartenenti all?etnia albanese, ma un certo numero, quasi un centinaio, anche con membri di altre etnie (serbi, macedoni, montenegrini). Ma la guerra ha affievolito il ricordo di queste competenze e ha messo in primo piano l?esercizio delle armi, aumentando gli odi e i pregiudizi reciproci. Per questo è importante che nella zona non vadano solo forze armate sotto l?egida delle Nazioni Unite, ma anche persone esperte in mediazione dei conflitti e nella pratica della nonviolenza, come, per esempio, i Corpi Europei Civili di Pace, che Alex Langer aveva promosso e che una raccomandazione del Parlamento Europeo, del febbraio 1999, suggerisce di organizzare. Questi corpi, in attesa della loro costituzione ufficiale, possono essere anticipati da persone facenti parte delle organizzazioni che hanno lavorato in questi anni nell?area con gli stessi fini (come, per esempio, la Campagna per una soluzione nonviolenta nel Kosovo, i Beati costruttori di pace o l?Operazione Colomba dell?Associazione Giovanni XXIII). Tutti possono da subito portare avanti un lavoro che serva come rinforzo alle capacità locali, ora emarginate, per farle ritornare in primo piano aiutandole anche a riorganizzarsi e potenziarsi collegandosi a rete non solo all?interno dello stesso gruppo etnico ma anche tra gruppi diversi. Questa opzione può permettere a queste stesse organizzazioni, una volta che abbiano ripreso le loro attività, di lavorare su interessi comuni per la rinascita di queste zone e per un processo di riconciliazione che non dimentichi le ingiustizie e i crimini commessi in passato, ma che allo stesso tempo cerchi di superarli nello stesso modo in cui è stato portato avanti il processo di riconciliazione attraverso commissioni apposite in Sud Africa. Quando si è chiuso l?apartheid. L?Italia in campo con i volontari delle ong e i corpi civili di pace Cesvi Intorno a Pristina e Globovac ristrutturerà case distrutte e distribuirà kit di vestiario per bambini e adulti. Le fasce più deboli della popolazione di cui il Cesvi si prende cura già dall?ottobre 1998. Info: 035/243990 Corpi di pace Il primo Ufficio diritti umani e comportamenti di pace sarà aperto a Pristina lunedì 21 giugno. È il primo frutto della mobilitazione ?Io vado a Pristina e a Belgrado?. Durante il mese d?agosto verranno formati altri volontari per alimentare il corpo di pace. Info: Beati i costruttori di pace, 049/666043; Operazione Colomba, 0541/751498 InterSos Nel Kosovo occidentale, tra Klina e Istok, riprenderà il lavoro di ricostruzione dei circa 20 villaggi che aveva dovuto lasciare prima dei bombardamenti. In particolare, questa ong garantirà la vivibilità di almeno una stanza in 1000 case per dare un tetto ai profughi che dovrebbero tornare nei 50 villaggi della zona. Per contattarla: 06/4466710 Nuova Frontiera Durante la guerra girava i campi profughi della Macedonia con una clinica mobile, mentre per Echo opererà tra Prizren e Stropce. Per ricostruire l?intero tessuto civile della zona, dagli edifici pubblici alle case distrutte dai bombardamenti, e favorire il ritorno dei profughi albanesi ma anche dei serbi fuoriusciti dalle Krajne. Info: 051/226280 oppure 02/66980809 Cric Nella zona di Gnjilane, a 20 chilometri dal confine con la Macedonia, dove già prima della guerra questa organizzazione non governativa di Reggio Calabria distribuiva kit igienico sanitari e attrezzature per disabili, tra una settimana distribuirà vestiti, scarpe e materiale igienico ai profughi. Perché le operazioni abbiano inizio, tuttavia, bisognerà sminare tutti i campi e le strade della zona. Info: 0965/812345 oppure 090/2935420


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