Politica

Kenya, una democraziaimbalsamata

Drammi africani Un grande esperto spiega le vere ragioni della crisi di Nairobi

di Redazione

di Musambayi Katumanga
Dopo l’annuncio che Mwai Kibaki, presidente uscente, era il vincitore delle elezioni del 27 dicembre, il Kenya è sprofondato nel caos, la società è collassata nella violenza e le istituzioni statali hanno mostrato tutti i loro limiti. Ma come ha potuto verificarsi una tale “decapitazione dello Stato”? Per capirlo è necessario andare a ciò che Leonard Binder – docente di Scienze politiche a Los Angeles – ha descritto come la crisi dello stato nazionale che molti Stati africani, Kenya incluso, hanno evitato di affrontare fin dal periodo della indipendenza. Una crisi che ha cinque aspetti. Vediamoli.
Primo, la crisi delle istituzioni. Nel caso del Kenya questo significa bassissimo livello di penetrazione della società civile e delle infrastrutture economiche nella struttura statale. Come conseguenza di ciò, lo Stato è incapace di liberare capitale inattivo per generare la sostenibilità di quel che studiosi come Thandika Mkandawire chiamano “economia delle termiti”: molte comunità, così, rimangono congelate nei loro spazi etnici. C’è anche un altro segnale per riconoscere la crisi delle istituzioni: la sempre minore capacità dello Stato nel controllare l’utilizzo di mezzi violenti per far rispettare la legge e l’ordine. Ampie zone del Kenya, infatti, sono state lasciate cadere sotto il controllo di gruppi organizzati di guardie.
Una seconda faccia della crisi è la distribuzione delle risorse tra i vari gruppi sociali. In una società a vocazione prevalentemente agricola come è il Kenya, uno dei beni decisivi è la terra: la crisi affonda le sue radici nella violenta alienazione della terra che fino ad oggi ha creato la presenza diffusa di senzaterra.
In terzo luogo c’è la crisi di partecipazione, manifestata dall’incapacità dello Stato di mettere in atto le risorse democratiche necessarie per facilitare ai cittadini il godimento dei propri diritti politici ed economico-sociali. In Kenya tutto questo è reso ancora più acuto dal fatto che le élite politiche locali sono state incapaci di aggregare il consenso: a dicembre 2007 c’erano in Kenya più di 250 formazioni che si autodefinivano “partiti politici”.
Un quarto punto è la crisi di identità: lo Stato non ha saputo far nascere e far maturare un forte senso di appartenenza nazionale a partire dal sentimento avvertito della marginalizzazione. Questo fattore ha portato a forme di schizofrenia politica. Le élite hanno costantemente tentato di far salire il supporto alla percezione della nazionalità comune, ma nello stesso tempo – a livello pratico – non hanno mai esitato a usare la propria posizione di potere per fare concessioni sulla base di considerazioni etniche. La carta di identità nazionale, per fare solo un esempio, enfatizza l’appartenenza etnica e il distretto di origine. Le élite cioè hanno rafforzato una situazione per cui sia lo Stato sia l’appartenenza etnica si contendono il controllo della fedeltà di un cittadino.
Infine, il quinto elemento della crisi dello stato nazionale è l’incapacità degli Stati di creare forme alternative di gestione e risoluzione dei conflitti.
Ad alimentare i fattori della crisi è stata la preferenza accordata dall’élite al potere alla logica di una politica economica basata sull’esclusione e volta al consolidamento del regime. Fin dall’indipendenza, i gruppi dirigenti del Paese hanno cercato di rafforzare e proteggere se stessi
attraverso emendamenti costituzionali quando la minaccia era rappresentata da un gruppo e attraverso assassini quando la minaccia veniva da singole persone. Le élite si sono contraddistinte per bassi livelli di responsabilità e un’alta tendenza alla delegittimazione delle istituzioni. Tutto ciò, nel tempo, si è fuso con le politiche di distribuzione delle risorse. La centralizzazione del potere ha garantito che fossero gli stessi attori a decidere chi doveva ottenere qualcosa, cosa, quando, come dalle politiche di allocazione delle risorse. A questo proposito bisogna sottolineare come il disegno dello Stato, fin dal periodo coloniale, fosse quello di creare territori che rispondessero alle identità etniche: di conseguenza ogni allocazione delle risorse è sembrato un processo che favoriva, di volta in volta, alcune aree e quindi alcune etnie. In Kenya tutto ciò ha creato fratture all’interno delle stesse élite, incapaci di governare istituzioni liberali nel mezzo del sottosviluppo.
Qualsiasi tentativo di ricostruzione dello Stato comporterà di necessità degli sforzi congiunti adeguati ad affrontare non solo le questioni di architettura istituzionale, ma anche la decostruzione narrativa e dei discorsi, che deve cercare di attribuire le responsabilità di questa tragedia non alle comunità ma agli individui che hanno progettato ed eseguito questo colpo di Stato, e all’élite al potere che ha strumentalizzato le questioni etniche. Questo processo è l’unico che può consentire al Paese un lutto collettivo, l’interpretazione e la comprensione di questa tragedia da un punto di vista collettivo. Senza questo, le narrazioni di quanto è accaduto rimarranno come basi di futuri conflitti.
È già successo con molti altri scontri politici, di cui vengono ancora oggi date interpretazioni diverse, rinforzando così le paure e le ostilità interetniche. Penso per esempio alla cacciata dalla politica di Jaramogi Oginga Odinga (padre di Raila, di etnia Luo), che pure aveva facilitato l’ascesa al potere di Kenyatta (Kykuyu), oppure all’assassinio di Tom Mboya da parte del regime di Kenyatta.
Diversamente dall’immaginazione politica nutrita dalle élite, che vorrebbero dipingere il problema del Kenya come un problema etnico, la reatà è che il Kenya sta sperimentando un processo di strumentalizzazione dell’elemento etnico per ragioni di vantaggio politico. Se fosse vera la prima ipotesi, pochi oggi sarebbero sani e salvi in Kenya.

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