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Kenya, la brevestagione dei fanatici Poteva essere un vero conflitto etnico. Invece media,Chiese, persino le forze dell’ordine hanno lavoratoper spegnere i fuochi. Per ora ci sono riusciti di Fabio Pipinato

un'altra africa Quel che i media non hanno raccontato

di Redazione

Dal primo dell’anno il Kenya non sembra più lo stesso. Violenza, pulizia etnica, economia a picco, sanità al collasso. Questo è il bicchiere mezzo vuoto che i media hanno fotografato. Ma l’essenziale è invisibile agli occhi. Il Kenya ha resistito con la nonviolenza all’avanzata di pochi facinorosi. Più per interesse che per credo profondo, ma sia i commercianti che gli insegnanti non hanno avuto tempo per la guerra. I kikuyu della Rift Valley volevano riaprir bottega e i docenti luo di Eldoret terminare il programma all’università.
I preti, a Nyahururu per esempio, hanno aiutato i profughi assieme alle proprie comunità. La gente s’è fatta coinvolgere con la speranza che un po’ di aiuti ricadano anche su di loro. Si può violentare colui di cui ti sei preso cura? Difficile. Si può violentare un tuo fornitore o un tuo cliente? Impossibile. Semmai spremere ma non sopprimere. Ma la società civile fatta di media, Chiese, multinazionali, ong ha risposto con un altisonante «lasciateci in pace».
Anche la polizia, da sempre tra le più corrotte al mondo, in molti casi s’è distinta per ospitare i profughi all’interno delle proprie caserme. A Nairobi, mentre gli aerei rimpatriavano i cooperanti stranieri, non cessavano le attività di azione nonviolenta e interposizione nelle baraccopoli. Certo. Fanno da contraltare “finte” organizzazioni non governative che si stanno arricchendo puntando sull’incapacità di donatori e singoli a discernere ed intercettando fiumi di denaro riversati sull’emotività che l’emergenza crea. Ma anche questo è mercato. Che ci piaccia o no.
Desmond Tutu, Graça Machel – ex moglie di Nelson Mandela -, Yoweri Museveni, Kofi Annan e altri mediatori africani hanno aiutato a non peggiorare le cose. Tutti hanno interessi che la metropoli ritorni a governare l’Africa dell’Est, che il porto di Mombasa si riapra all’Oceano Indiano e che le arterie con gli Stati confinanti siano valicate da treni e autotreni. Il «tanto peggio tanto meglio» di pochi guerrafondai ha le ore contate. Le stesse multinazionali del turismo hanno agito come attori di pace. Mombasa, Malindi e i dieci parchi del Kenya non possono permettersi un’instabilità per più mesi. Compagnie aeree, agenzie di viaggi, alberghi a cinque stelle… insomma, tutti per la nonviolenza attiva.
La coincidenza del vertice dell’Unione Africana nella vicina Addis Abeba ha aggiunto pressione per un accordo onorevole. L’Onu ha fatto il suo dovere e sta mediando. La Cina, infatti, rivendica i propri investimenti in Africa e non può permettersi ritardi. Pechino accoglie quindi l’invito di Francia nel Consiglio di Sicurezza per condannare le ampie violazioni. La presenza sia dell’attuale che dell’ex segretario generale è determinante per la pace. I due contendenti alla presidenza circondati da una pletora di arrivisti si sentono “obbligati” a migrare verso una “grande coalizione”.
Tutti impuniti? Affatto. È già arrivata una delegazione dell’Alto commissario per i diritti umani per indagare sulle «gravi violazioni» commesse. Il «fare subito chiarezza» senza aspettare può aiutare il Paese a rielaborare le proprie difficoltà. Ipotizzando, da subito, strade meno violente perché sia oggi che domani sarà comunque «impossibile cancellare le macchie di leopardo», come recita un proverbio kikuyu.
Insomma, l’attuale «processo nazionale di dialogo e riconciliazione» lo si deve a tutti i portatori d’interesse. Nessuno escluso. La pace come vero affare. Forse l’unico. La pulizia etnica una follia inutile. Banale. Ed è per questo che non ha affascinato le masse ma solo pochi esaltati.

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