Mondo
Kenya: il campo profughi di Dadaab, hub commerciale o miseria sociale?
Dopo le minacce del governo keniota di voler chiudere entro novembre il più grande campo profughi al mondo, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR) compie una missione in Kenya e Somalia per incontrare le autorità locali e gli operatori umanitari. Al termine della sua visita, Filippo Grandi si dice contrario al rimpatrio di rifugiati somali senza il consenso dell’ACNUR e del governo di Mogadiscio. Ma cos'è in realtà questo campo di cui tutti parlano? Per alcuni “un hub commerciale” difficilmente sostituibile, per altri un simbolo della miseria sociale dei profughi in Africa
Giunto in Kenya e Somalia per spegnere l’emergenza Dadaab, l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (ACNUR), Filippo Grandi lascia Nairobi con una certezza: i rimpatrii forzati di rifugiati somali dal campo profughi di Dadaab non si devono fare, i ritorni sì ma soltanto con l’accordo dell’ACNUR e del governo somalo. Così possiamo riassumere il viaggio di cinque gorni effettuato da Grandi in Kenya e Somali in seguito alla decisione presa a inizio maggio dal governo keniota di voler chiudere entro novembre il campo di Dadaad, non lontano dalla frontiera somala. Dal dicembre 2014, circa 14mila rifugiati somali hanno aderito al programma di rimpatrio volontario, al quale si sommano “altre decine di migliaia di rimpatrii volontari” senza l’assistenza dell’ACNUR, assicura Grandi.
Con oltre 344mila rifugiati, di cui 328mila somali in fuga dalla guerra civile scoppiata nel loro paese nel 1991, Dadaab è considerato il più grande campo profughi al mondo. Non è la prima volta che Nairobi annuncia di voler chiudere Dadaab, così come non è la prima volta che intende farlo per moviti di sicurezza legati alla minaccia islamista degli Al Shabaab, un movimento terroristico somalo accusato di aver organizzato e pilotato a partire dal campo di Dadaab gli attacchi contro l’Università di Garissa nel 2015 e il centro commerciale Westgate a Nairobi due anni prima. Finora il governo keniota non ha mai corroborato le sue accuse con prove inconfutabili, ma la sua determinazione sta suscitando non poche polemiche sui media e nella Comunità internazionale. Molti temono che Dadaab possa dar nascita alla prossima crisi migratoria. Ma è davvero così?
Dadaab, un hub commerciale
Forse no, anzi sicuramente no. Basta andare negli archivi del sito di Le Monde e scovare un articolo il cui titolo è inequivocabile: “Come il Kenya accoglie i rifugiati guadagnandoci”. Pubblicato nel settembre 2015, il reportage del quotidiano francese spiega i motivi per i quali non conviene a nessuno chiudere Dadaab. Definito dal giornale keniota Business Daily “un hub commerciale”, il campo profughi consente innanzitutto al Kenya di raccogliere 100 milioni di dollari all’anno fornendo ai rifugiati, alla popolazione locale e al mondo umanitario fino a 10mila posti di lavoro. Non a caso, oggi Dadaab “è il principale fornitore di lavoro di una provincia abbandonata dal governo sin dall’indipendenza” negli anni ’60.
Definito dal giornale keniota Business Daily “un hub commerciale”, il campo profughi consente innanzitutto al Kenya di raccogliere 100 milioni di dollari all’anno fornendo ai rifugiati, alla popolazione locale e al mondo umanitario fino a 10mila posti di lavoro.
A rendere lo smantellamento ancora più complicato è il tessuto socio-economico che è venuto a crearsi da quando Dadaab è stato istituito nel 1991 con la costruzione del campo di Ifo. Da allora “i rifugiati somali e i kenioti hanno sviluppato molti affari in comune”, assicura un venticinquenne keniota, Mohamed Bishar Shurie. “I kenioti vendono ai rifugiati del bestiame, di vestiti, dei libri, dei biscotti e del latte”. In cambio, i somali vendono materiale elettronico e prodotti agricoli a buon mercato. Infatti, il prezzo del riso o dello zucchero venduto nei campi e dintorni è inferiore del 20% in media rispetto alle altre città del Kenya. Già, perché con i suoi 350mila abitanti, Dadaab è diventato il terzo centro urbano più popolato del paese. I benefici tratti dai campi per le comunità locali è pari a 14 milioni di dollari all’anno, il che equivale al 25% del PIL della provincia di Dadaab.
A dimostrazione che Dadaab è un hub commerciale estremamente dinamico, un rapporto pubblicato nel 2010 dai governi norvegese e danese, Dadaab stima a più di 5mila i commerci disseminati nella città e nei campi. Ancora più sorprendente, una ricerca condotta nel 2014 dal direttore del Centro studi sui rifugiati dell’università di Oxford, Alexander Betts, rivela che l’impatto economico dei rifugiati nel paese è positivo. Questo nonostante il governo keniota continui a negare ai rifugiati il diritti di sviluppare un’attività economica al di fuori del campo profughi.
A Kampala, la capitale, il 43% dei rifugiati sono impiegati da cittadini ugandesi, mentre viceversa il 40% dei lavoratori impiegati in commerci gestiti da rifugiati sono ugandesi!
Alexander Betts, direttore del Centro studi sui rifugiati dell’Università di Oxford
L’Uganda, che accoglie 29mila rifugiati somali, fa esattamente il contratrio. Risultato: “A Kampala, la capitale, il 43% dei rifugiati sono impiegati da cittadini ugandesi, mentre viceversa il 40% dei lavoratori impiegati in commerci gestiti da rifugiati sono ugandesi!”.
Ma non tutto è oro quello che lucica. Anzi, per Abdullahi Halakhe, ricercatore di Amnesty International in Africa orientale gli aspetti negativi di Dadaab prevalgono su quelli positivi. “La prima funzione di un campo profughi non è certo quella di generare ricchezza. Prima di essere un hub economico. Dadaab è un hub della miseria, dove le popolazioni vivono prive di speranza”. Oltre alla povertà, il campo può anche essere pericoloso. Nel maggio 2015, le infiltrazioni dei terroristi somali di Al Shabaab avevano costretto Medici Senza frontiere ad evacuare 42 operatori umanitari.
Credito foto di copertina: Oli Scarff/Getty Images
Cosa fa VITA?
Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è grazie a chi decide di sostenerci.