Scenari

Kashmir, la polveriera al confine tra India e Pakistan

Reciproche accuse e scontri armati riaccendono la storica rivalità dopo l'attentato del 22 aprile. Il nazionalismo induista di Modi fa aumentare le tensioni. Ma secondo l'esperto Ispi, Nicola Missaglia, New Delhi «non ha interesse in una escalation»

di Francesco Crippa

La linea di confine nel Kashmir che divide India e Pakistan assomiglia sempre più a una bomba pronta a esplodere. Per la sesta notte consecutiva i rispettivi eserciti hanno aperto il fuoco uno contro l’altro, con scambi di accuse reciproche. Per New Delhi sono le truppe pakistane a violare ripetutamente l’accordo di cessate il fuoco siglato dai due Paesi, mentre per Islamabad è l’India che sta cercando di strumentalizzare l’attentato del 22 aprile per colpire lo Stato.

L’ombra di Islamabad dietro l’attentato

Facciamo un passo indietro. Il 22 aprile 26 civili indù ha perso la vita in un attentato a Pahalgam, nel Kashmir indiano. L’attacco è stato rivendicato dal gruppo Kashmir Resistance, formazione nata nel 2019 che per l’India è legata al Lashkar-e-Taiba, organizzazione terroristica tra le più grandi dell’area e che fa base in Pakistan. Proprio per questo, New Delhi sostiene che dietro all’attentato ci sia Islamabad, che però nega ogni responsabilità e anzi lancia l’allarme ritorsione. «Abbiamo informazioni di intelligence credibili secondo cui l’India intende compiere un’azione militare contro il Pakistan nelle prossime 24-36 ore, con il pretesto di accuse infondate e inventate di coinvolgimento nell’incidente di Pahalgam», ha twittato il ministro dell’Informazione Attaullah Tarar. Il 29 aprile, del resto, il primo ministro indiano Narendra Modi ha dato alle proprie forze armate «completa libertà operativa di decidere sui modi, gli obiettivi e i tempi della nostra risposta».

In ogni caso, si tratta di un episodio che si inserisce nella lunga storia di inimicizia che (s)lega i due Paesi fin dalla separazione traumatica avvenuta nel 1947 dopo l’indipendenza dall’Impero britannico. Entrambi rivendicano il Kashmir, che è l’unica regione indiana a maggioranza musulmana e che per questo è sempre stato visto con sospetto dai governi di New Delhi. Oltre a periodici scontri al confine e attentati, i due Paesi hanno anche combattuto quattro guerre in meno di un secolo: nel 1947, appunto, poi nel 1965, nel 1971 (che ha portato alla nascita del Bangladesh, separatosi dal Pakistan) e ancora nel 1999. 

Escalation? Non è una priorità per l’India

L’improvviso nuovo acuirsi delle relazioni arriva però abbastanza inaspettato. «Non credo fosse una priorità dell’India soffiare su queste tensioni», spiega a VITA Nicola Missaglia, ricercatore a capo dell’India desk dell’Ispi. «In questo momento, New Delhi è in una situazione positiva: ha appena firmato degli accordi con l’Unione europea, sta per farlo con gli Stati Uniti, attrae investimenti. Insomma, è sulla strada per diventar una vera potenza asiatica e non ha interesse a un escalation, però al tempo stesso il governo è obbligato a dimostrare di essere in grado di reagire di fronte a un attacco di questo tipo».

In attesa di capire se la risposta diplomatico-militare sarà più o meno corpulenta, chi vive nella zona di confine ne sta già sperimentando sulla sua pelle le conseguenze. Secondo fonti ufficiali, dall’inizio degli scontri sei giorni fa 786 cittadini pakistani hanno lasciato l’India passando dal valico di frontiera di Attari-Wagah, mentre hanno fatto il percorso inverso 1.376 indiani. Movimenti dettati dalla volontà di non trovarsi dalla parte “sbagliata” del confine all’eventuale scoppio del conflitto, ma anche dalla paura di violenze da parte dell’altra popolazione. 

L’elemento religioso: cresce l’allarme islamofobia

In tutto questo, ha un forte peso l’elemento religioso. I casi di aggressioni islamofobe in India sono in aumento. Ad Agra, nello stato di Uttar Pradesh, per esempio, due uomini hanno sparato a due dipendenti musulmani di un ristorante in pieno centro, uccidendone uno. Ricondividendo sui social la propria azione, hanno promesso di «uccidere migliaia di musulmani di Agra». Un’aggressione meno violenta ma non per questo meno sintomatica è avvenuta ad Ambala, nell’Haryana, dove due venditori ambulanti di fede islamica sono stati colpiti e minacciati da alcuni indù. Nel Kashmir le cose vanno pure peggio: l’esercito di New Delhi ha arrestato centinaia di persone, spesso distruggendo le loro case, con il pretesto di cercare i responsabili dell’attentato del 22 aprile.

«Dall’avvento al potere di Modi nel 2014 è cominciata una politica e soprattutto una retorica molto nazionalista con una connotazione etnico-religiosa forte, in virtù della quale si riconosce la sovranità dell’India alla popolazione induista», spiega Missaglia. «Di conseguenza, i musulmani e tutte le altre minoranze vengono visti come cittadini di seconda categoria». Gli undici anni di governo di Modi hanno segnato una rottura rispetto alla tradizione indiana. «L’India moderna è sempre stata attraversata da tensioni e violenze, ma lo spirito della Costituzione repubblicana ha cercato di tenere insieme le innumerevoli pluralità».

Ora però i cittadini non si sentono più rappresentati dal Congress, il partito secolarista che ha guidato il Paese attraverso il Novecento. «La popolazione è delusa, specialmente i giovani, che guardano al presente e sono slegati dal mito fondativo dell’India. Ai loro occhi il Congress è troppo dinastico, mentre Modi è un volto nuovo che non appartiene alle grandi famiglie politiche dell’India», continua l’esperto. «Soprattutto, ha dato risposte economiche importanti. Non è un caso che dal 2014 sia stato rieletto altre due volte». Alcuni problemi rimangono, come la disoccupazione o la distribuzione della ricchezza. In questo senso, conclude Missaglia, «rinfocolare la retorica nazionalista aiuta a distrarre l’opinione pubblica». 

In apertura: Proteste a Jammu, India, dopo l’attentato a Pahalgam (AP Photo/Channi Anand/Associated Press/LaPresse)

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