Economia

Karachi, Italia

di Andrea Di Turi

Senza retorica, che di fronte a drammi di questa portata è ancora più fuori luogo. Però pensiamo: in quanti ci siamo fermati a riflettere anche solo per pochi momenti sulla tragedia delle centinaia di lavoratori morti due settimane fa nell’incendio di una fabbrica a Karachi, in Pakistan?

È vero, siamo bombardati costantemente da troppe notizie. Ma su alcune fermiamo l’attenzione, su altre no. I motivi possono essere molti e assai diversi fra loro. Ma credo che uno fondamentale sia questo: alcune notizie le sentiamo vicine, altre no. E quando dico vicine intendo che ci toccano, che ci riguardano.

Quanto è vicino a noi Karachi? Poco, perché è molto lontano: come geografia, come cultura, come fase del processo di sviluppo, come storia. Ma da anni, decenni, ci ripetono che la globalizzazione e le nuove tecnologie hanno reso il mondo più piccolo, più vicino, appunto. Solo che ad essere vicine sono quasi sempre le stesse parti del mondo. O, meglio, quelle “parti” di mondo, nel senso quelle parti di società/stili di vita/culture/modelli socio-economici, che in ogni parte del mondo, inteso questa volta in senso geografico, ci somigliano di più. O che hanno più relazioni con noi, più affinità, a prescindere dal fatto che siano fisicamente vicine o lontane. Anche se la distanza fisica, globalizzazione o no, continua ad avere il suo peso (e meno male).

Allora la domanda è: cosa ci fa sentire vicino o lontano un luogo, un avvenimento? Se qualcuno ha dei parenti o amici a Karachi, di sicuro ha vissuto quella tragedia in modo diverso. Magari telefonando, mandando una email o un tweet per informarsi, per saperne di più. Ma se manca un legame, affettivo o di qualsiasi tipo, anche solo di tipo economico, con un luogo, è facile che ciò che lì avviene scorra sopra la nostra attenzione come una goccia su un impermeabile.

Quella fabbrica, però, noi la conosciamo. Intendiamoci: non quella fabbrica nello specifico, ma quel tipo di fabbrica. Perché sono le fabbriche dove in mezzo mondo si produce, in condizioni di lavoro impossibili, ciò che nell’altra metà del mondo si compra, anzi, si consuma, come siamo abituati ormai a sentirci dire anche qui da troppo tempo. Quasi che ogni acquisto fosse un consumo, da bruciare il più in fretta possibile, e non un utilizzo, da gestire con oculatezza e possibilmente con parsimonia affinché possa durare il più possibile.

Pare che cambiare le condizioni di lavoro in quelle fabbriche sia davvero un affare molto complesso. Tantissimi e potenti gli interessi in gioco. Diciamolo pure, c’è anche la paura di mezzo ed è più che legittimo, quando sembra che niente e nessuno siano lì a tutelarti. Ne ho letto ad esempio in questo lungo articolo uscito giorni fa (non so per quanto tempo il link resterà attivo, ma insomma a oggi sì). Dove si legge ad esempio, in riferimento alla situazione di fabbriche e lavoratori a Karachi: «La grave mancanza di sicurezza è una norma. Le mafie dei palazzinari hanno il sopravvento, e i funzionari di governo hanno dimostrato di non saper impedire illegalità e violazioni di ogni sorta».

Poi nei giorni successivi mi sono arrivate alcune informazioni via email legate ai fatti di Karachi. Una diceva che la nota Clean Clothes Campaign (Campagna Abiti puliti) si occuperà da molto vicino di quanto è accaduto. Da vicino, nel senso che seguirà con attenzione. Si può leggere il comunicato a questo indirizzo.

Si dice che la Campagna chiederà a tutte le aziende che si riforniscono a Karachi di effettuare verifiche immediate delle fabbriche dei loro fornitori, delle condizioni di lavoro che presentano, del rischio insomma che un incidente di questo tipo si ripeta. E c’è il link alla petizione di IndustriALL Global Union (organizzazione appena nata che rappresenta 50 milioni di lavoratori in tutto il mondo) per rendere sicure, o quanto meno più sicure, le fabbriche dei lavoratori del tessile. C’è anche l’aggiornamento di quello che si sta facendo per prevenire futuri disastri del genere.

Ciò fa sperare che quanto accaduto possa servire e che il sacrificio di quelle vite non sia stato vano. Fa sperare che tutte le connessioni commerciali con quella fabbrica vengano a galla. Che chi si serviva del lavoro di quei lavoratori, direttamente e indirettamente, venga smascherato. E che a lui, a loro, si potrà prima o poi chiedere conto per ciò che è successo. Perché quelle fabbriche molto spesso vivono o sopravvivono solo in quanto inserite in catene di fornitura e sub-fornitura estremamente lunghe e complesse, che sembrano a volte perdersi nel nulla. Chi ci guadagna, però, lo sa bene dove iniziano e dove finiscono.

Ma quando tutte queste informazioni saranno disponibili, allora arriverà il momento più difficile per noi, cittadini del mondo industrializzato che spesso siamo i beneficiari di quei prodotti a prezzi stracciati (“low cost” è più trendy, lo so, e riesce meglio a mascherare la crudezza della realtà). Noi che compriamo, “consumiamo” prodotti che arrivano dalle tantissime fabbriche di Karachi che esistono nel mondo. Sapremo chiedere, esigere che in quelle condizioni non si lavori più? Sapremo scegliere col nostro “voto col portafoglio” i prodotti che raccontano di diritti rispettati, condizioni di lavoro adeguate, salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, tutela dell’ambiente, insomma di un modo di produrre e intendere l’economia che è responsabile, umano e capace di futuro? Sapremo almeno dubitare, riflettere, su quei prodotti che non dicono nulla del modo in cui sono stati realizzati e arrivano nei nostri negozi con prezzi che ci paiono così seducenti soprattutto in periodo di crisi? Sapremo dire che siamo vicini a Karachi, che quanto accaduto ci riguarda?

Questa è la grande, difficile, lunga e forse interminabile battaglia della csr: non codici, standard, linee guida, che sì sono necessari ma a volte, troppe volte, rischiano di far prevalere i mezzi sui fini, di far perdere di vista il perché questa è una cosa importante, non lontana, da non lasciare ad altri ma da trattare in prima persona. L’unico esercito che può combatterla e vincerla siamo noi, tutti noi insieme e ciascuno di noi per la sua piccola ma indispensabile parte. Come recita il titolo di un importante libro appena uscito: il mercato siamo noi.

 Twitter @andytuit

 

 

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