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Kagame, l’uomo forte di Kigali

Ritratto dell'uomo che tiene le redini del Paese dal genocidio del 94

di Joshua Massarenti

Quattro figli, 53 anni
e un soprannome sinistro.
Nel 2009 il «Time»
lo ha eletto tra le persone
più influenti del pianeta.
Un successo conquistato con il sudore della repressione.
Come sta accadendo
in questi giorni. In vista
delle presidenziali…

Despota illuminato o tiranno implacabile? Su Paul Kagame i giudizi si dividono. Reporters sans frontières e Human Rights Watch lo definiscono uno dei leader più spietati dell’Africa, mentre gli amici anglofoni, Tony Blair e Bill Clinton in testa, lodano il suo carisma politico. L’uomo ha la fama di essere un duro. Implacabile di fronte a chiunque osi contrapporsi all’unico obiettivo che si è posto da quando, nel 1994, prese le redini del Rwanda: ricostruire un Paese devastato dal genocidio più rapido della storia. Tre mesi, tanto era bastato agli estremisti dell’etnia hutu per massacrare a colpi di machete 800mila tutsi e una minoranza di oppositori hutu.

Una capitale-vetrina
A 16 anni di distanza, il Rwanda ha fatto passi da giganti, con la capitale Kigali diventata vetrina della crescita economica sbalorditiva registrata dal Paese nell’ultimo decennio (6% in media), una classe media in aumento e livelli di sicurezza superiori a molti Paesi europei. Ma a Kagame, 53 anni, sposato, quattro figli, eletto dal Time tra le personalità più influenti del mondo nel 2009, non basta. Nell’ultima classifica stilata dall’Undp, il Programma Onu per lo sviluppo umano, il Rwanda rimane inchiodato al 167esimo posto (su 182 Paesi classificati), con un quarto della popolazione rurale (maggioritaria al 90%) costretta a fare la fame. «La strada per lo sviluppo è ancora lunga», ripete instancabilmente ai giornalisti che si presentano al palazzo presidenziale. Sarà per questo, pensano le anime più candide, che Kagame ha deciso di presentarsi alle elezioni presidenziali previste il 9 agosto prossimo. O forse, come sostengono i suoi più feroci nemici, per la sua insaziabile sete di potere. Una cosa è sicura: la sua vittoria è data per scontata.
Per i prossimi sette anni, sarà lui a guidare una nazione ancora in lotta contro gli spettri del genocidio. «Sono ferite molto difficili da ricucire», mi disse il presidente rwandese in un primo incontro effettuato a Zurigo nel 2002. Seguì una seconda intervista realizzata nel 2003 all’indomani delle prime elezioni “democratiche” della storia del Rwanda. Ricordo un uomo sicuro di sé, convinto che «le divisioni etniche erano sul punto di essere superate» e per questo motivo irritato da quegli «europei che continuano a vedere il Rwanda come un Paese diviso tra hutu, tutsi e twa, e che pensano che la maggioranza, gli hutu, debbano per forza ottenere la supremazia politica». In entrambe le occasioni, l’aurea di persona cordiale ma fredda non si smentì.

Un bambino-rifugiato
Come ogni rwandese, Kagame non lascia trasparire nessun sentimento. Gioia e paura sono state seppellite anni fa. Prima con un’infanzia da rifugiato trascorsa in Uganda nella miseria sociale di un campo profughi, poi durante gli anni 80 nelle fila della ribellione ugandese guidata da Yoweri Museveni. L’esperienza si rivela decisiva.
La sua affinità con il fucile e la disciplina lo proiettano nel 1986 alla guida dei servizi segreti ugandesi. Addio al suo idolo Che Guevara, è giunto il tempo di Ponzio Pilato, uno dei tanti soprannomi che gli si accolla. Al resto ci pensano gli Stati Uniti, che lo impongono nel 1990 alla guida del movimento ribelle tutsi dell’Fpr, il Fronte patriottico rwandese, per sconfiggere il regime rwandese pro hutu sostenuto dalla Francia. Dopo la sua vittoria nel 1994, Kagame si inventa un’altra guerra, questa volta in Congo per andare a caccia degli estremisti hutu in fuga. Per anni le truppe rwandesi hanno fatto terra bruciata del Congo orientale, uccidendo e accaparrandosi un volume impressionante di risorse minerarie. Ogni presidente-dittatore africano avrebbe moltiplicato i conti bancari all’estero, Kagame no. Ma nel suo entourage, largamente dominato da ex compagni di guerra tutsi provenienti dall’Uganda, c’è chi ha accumulato fortune personali colossali. Addirittura sua moglie Jeannette avrebbe il monopolio dell’industria vinicola, mentre la stragrande maggioranza delle aziende e delle cooperative più grandi sarebbero interamente controllate dall’Fpr. Intanto il nostro uomo si affida alla sua vita di asceta (non beve né fuma) e all’ultimo rapporto di Transparency International che cita il Rwanda «come il Paese meno corrotto dell’Africa orientale».
Un successo conquistato con il sudore della repressione. Poche settimane fa è stata la volta del cognato del braccio destro di Kagame, “l’intoccabile” ministro della Difesa, James Kaberege, arrestato dopo aver minacciato con la pistola un suo dipendente. «Se qualcuno vi dice che è un mio amico, è una bugia», dichiarò un giorno il presidente rwandese, «Kagame non ha amici». Secondo Jean-Claude Nkubito, giornalista rwandese e corrispondente della Bbc Africa a Bruxelles, «in Rwanda non c’è foglia che si muova senza il suo consenso. Decide tutto lui. Ho messo in onda notizie che non gli sono piaciute, un amico vicino al potere mi ha detto che finché il presidente decide di lasciarmi in pace non può accadermi nulla». Altrimenti? «Altrimenti non so che fine farò».

Il tempo dei sicari
Che in Rwanda le critiche non fossero gradite è cosa risaputa. Ma dal febbraio scorso, il Paese è scosso da una serie inedita di attentati e omicidi. A cavallo tra giugno e luglio, il direttore di un giornale di opposizione e il vicepresidente del partito dei Verdi (bandito dalle elezioni) sono stati uccisi. Un terzo avversario, Kayumba Nyamwasa, generale che aveva cercato rifugio in Sudafrica (dopo aver accusato Kagame di corruzione), ha trovato cinque sicari rwandesi che gli hanno sparato nello stomaco di fronte al portone della sua casa di Johannesburg. A Kigali qualcuno parla di lotte intestine ferocissime tra falchi e colombe, che nel 2009 sono quasi costate la vita al presidente, scampato per miracolo a un tentativo di omicidio organizzato nella sua residenza da membri della guardia presidenziale. Intanto inglesi e americani, suoi fedelissimi alleati, stanno dando segni di nervosismo. Più sorprendente è invece il loro silenzio sulla decisione del governo di cambiare 150 articoli della Costituzione a proprio favore.


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