Welfare
Kader Diabate: «Ad ogni naufragio, il mio viaggio riparte»
A Steccato di Cutro il mare ha restituito altri cinque corpi: due sono di bambini. I morti accertati salgono a 86. Kader Diabate è partito dalla Costa d'Avorio quando aveva 17 anni ed è sbarcato in Calabria nel 2016. La strage di Cutro lo ha portato a rifare quel viaggio della morte che ha vissuto sulla sua pelle. In questa vibrante testimonianza ricorda i volti delle persone che erano con lui e che non ce l'hanno fatta. All'Italia e all'Europa chiede «che questo mondo possa tornare ad essere umano»
Kader Diabate è un giovane ivoriano, che come molti ha compiuto il suo viaggio attraversando il deserto, il mare e tanta terra ancora. Partito a 17 anni, è sbarcato a Reggio Calabria nell’ottobre 2016. Si è inserito prima nei percorsi scolastici, poi nella cooperazione sociale, coltivando sempre innanzitutto il suo “attivismo” a favore del popolo africano, animato da una straordinaria spinta ideale che, nel solco di grandi figure eroiche del suo popolo – a noi quasi del tutto sconosciute – lo porta a sperare in maniera concreta nella possibilità di un riscatto sociale politico ed economico del continente africano. Ha collaborato con l’Onu e con l’Unicef. La sua storia è raccontata nel libro: La pelle in cui abito (Laterza 2019), scritto con Giancarlo Visitilli. A Kader abbiamo chiesto di scrivere una riflessione sulla strage di Cutro. [Massimo Iiritano]
Un viaggio senza fine! Iniziato a giugno 2016, il mio viaggio prosegue ancora, anche se non mi sto muovendo più da un po’ di tempo. Si fa solo qualche sosta, che di solito dura poco. Ogni volta che leggo o sento una cronaca che parla di sbarco o di naufraghi, il mio viaggio riparte.
Torno a rifare quel viaggio della morte che ho sperimentato sulla pelle. Immagino il dolore delle donne e degli uomini di cui si parla quel giorno. L'ultima tragedia mi ha strappato il cuore, tanto che ci ho messo molto a trovare parole più o meno giuste per esprimermi.
Sì, il naufragio di Cutro ha voluto mandare un segnale più che chiaro, come per dire: «Se non volete restare a casa vostra, non contate su di noi per avere soccorso».
Questa vicenda mi ha fatto ripensare allo sguardo di quella ragazza che con gli occhi ci chiedeva di salvare solo il suo bimbo di circa 3 anni perché ormai lei si era sacrificata proprio per dare a quel bimbo innocente un futuro più sereno. Ma eravamo lì tutti impotenti, innocenti e soli di fronte al nostro destino.
Ho rivisto anche l’immagine di quel neonato aggrappato al seno della donna che aveva scelto di allattarlo, forse per evitare che si rendesse veramente conto del grandissimo pericolo che correvamo da quando si era bucato il nostro gommone. Ma c’è voluto poco prima che ci lasciasse per il cielo, lì dove nessuno potrà decidere della sua morte o vita.
E poi ho rivisto anche il viso perso di Yussuf – un adolescente che mi era parso così pieno di vita quando stavamo in Libia – mentre era costretto a guardare sua mamma annegare senza poter fare nulla. (Non ne avevo mai parlato in pubblico, né nel mio libro, perché lui ne soffriva ancora molto anche durante la nostra permanenza al centro di accoglienza per minori a Camini, in Calabria. Ora ha consumato il periodo del lutto ed è pure tornato in Costa d'Avorio per fare dei sacrifici per sua madre, perciò mi ha concesso di raccontare).
Ogni tragedia del genere mi fa ripensare ai cimiteri dei morti di mare in Tunisia e a quello di Reggio Calabria.
Spero che arriverà un giorno in cui l'Africa sarà veramente indipendente e potrà creare condizioni di vita migliori per i suoi figli.
Spero che i governi europei capiscano che le vite umane non devono subire calcoli politici.
Esprimo le mie condoglianze alle famiglie di chi ha perso la vita in questa vicenda e a tutti quelli che hanno avuto il cuore strappato.
Infine, spero che questo mondo possa tornare ad essere umano.
Foto di Sea Eye, organizzazione di soccorso civile fondata nel 2015
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