«Questa sera prendo
il treno e parto. Non so ancora dove. Forse l’Inghilterra, forse la Francia, forse la Norvegia». Le vite sommerse di tanti ragazzi in fuga dalla guerra. Rivelate da una telecamera nascosta. L’inviato
delle Iene racconta come
è nato un servizio
che ha commosso
e fatto discutere
Roma, piazzale dei Partigiani, ore 21. Al calar della sera, questo grosso spiazzo antistante la stazione Ostiense cambia faccia. Scompaiono le macchine parcheggiate, i turisti e i pendolari, e dal nulla arrivano gruppi di profughi afghani, che in poco tempo la trasformano in una piccola Kabul.
C’è chi aspetta l’arrivo dei furgoni carichi di cibo portato da qualche associazione di volontari, e chi è in cerca di un anfratto dove passare la notte. Sui marciapiedi si parlano il Dari, il Pashto e l’Urdu. Alcuni sono qui da mesi, e conoscono qualche parola di italiano. Altri sono appena arrivati in treno da Brindisi, Ancona o Venezia: l’ultima tappa di un’odissea cominciata settimane prima in un parcheggio di Herat o Jalalabad, proseguita dentro ai camion attraverso Iran e Turchia, e conclusasi nel porto greco di Patrasso. Un viaggio della disperazione verso le capitali del Nord Europa, che per molti passa prima dai bassifondi di Roma. Tra di loro ci sono anch’io. Sono venuto qui per realizzare un servizio per la trasmissione Le Iene, cercando di filmarli con una telecamera nascosta. Non è facile. I profughi fanno domande, non si fidano di nessuno, vengono da un viaggio in cui hanno visto morire amici e parenti. Mi aiuta il fatto di parlare la loro lingua, in parte conosciuta per via delle mie origini persiane, in parte studiata all’università.
Le loro storie si assomigliano. Tutti in Afghanistan avevano un lavoro, perso per l’arrivo dei talebani o a causa dei bombardamenti della Nato. Tutti hanno investito i risparmi di una vita (tra i 10mila e i 30mila dollari) per il viaggio. Tutti vogliono scappare da qui, perché si rendono conto che in Italia un profugo non ha futuro. Ma nessuno ha idea di dove andare, né di cosa fare della propria vita. Perciò passano le giornate tra le parrocchie e le Caritas.
Tra le decine di profughi che incontro alla stazione c’è un ragazzo accasciato su una panchina, è appena arrivato, non dorme da giorni. Gli altri afghani gli hanno appena detto che in Italia non c’è alcun futuro. Mi dice: «Questa sera prendo il treno e parto. Non so ancora dove. Forse l’Inghilterra, forse la Francia, forse la Norvegia». Parla di Paesi di cui non sa nulla, e che per lui non sono altro che nomi senza significato sparpagliati sulla cartina dell’Europa. Il suo futuro verrà deciso così: da una scelta casuale fatta davanti a un binario. E non è l’unico. Anche gli altri profughi sognano il treno per Parigi o per Londra, dove – hanno sentito – «il lavoro si trova facilmente, e il governo ti aiuta».
Che l’informazione sia giusta o meno non importa. Quello che importa è lasciare l’Italia più in fretta possibile. Ma non tutti possono farlo. Chi è stato fermato dalla polizia e registrato nelle nostre questure deve per forza fare richiesta di asilo da noi e attendere di essere convocato, spesso dopo mesi di attesa. Tant’è che, un po’ ovunque intorno alla stazione, qualcuno si è costruito delle baracche di legno, ricreando dei piccoli villaggi afghani lontano da occhi indiscreti. A colpirmi più di tutti è Hassan, un ragazzo di 17 anni. Vive da mesi in fondo a un binario della stazione, ed è disperato. Non ha notizie dei genitori, non può tornare a casa e non sa dove andare. «Mi sono stancato di vivere, a volte penso che vorrei buttarmi sotto al treno qui di fronte», mi confida. Nei quattro giorni e quattro notti passati nella stazione lo incrocio altre volte, con quello sguardo malinconico e l’aria di chi ha perso l’entusiasmo. Decine di altri minorenni afghani dell’Ostiense vivono come lui.
Dopo la messa in onda del servizio, la mia email è stata sommersa di messaggi di solidarietà. Molti telespettatori mi hanno scritto, dicendosi commossi da quelle storie, e chiedendo informazioni su come aiutare. A queste si sono aggiunte anche le numerose mail di associazioni e onlus attive nel settore. Ecco Barbara, volontaria presso un centro d’accoglienza di Firenze: «Tornate da quei ragazzini, andate a dir loro che esistono i Centri di pronta accoglienza per minorenni, che possono ricevere aiuto, un tetto sotto il quale dormire, da mangiare». A chi vuole aiutare ho risposto sempre la stessa cosa. Molti profughi afghani frequentano la mensa del Centro Astalli di Roma, gestito dai Gesuiti. Personalmente non li conosco. Ma se dovessi fare un bonifico, lo indirizzerei a loro.
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