Mondo

Kabul 2006, anche le ong inghiottite dal ciclone

Afghanistan. Nel mese di maggio dieci gli umanitari uccisi dai “ribelli” / Sono una cinquantina gli espatriati italiani che operano nel paese asiatico.

di Paolo Manzo

Non nascondiamoci dietro a un dito: più dell?Iraq oggi è l?Afghanistan a rischiare di essere la Caporetto dell?umanitario. In primis perché la presenza di ong a Kabul e dintorni è assai maggiore rispetto a Bagdad e, quindi, il rischio di finire tra le ?casualties? è superiore. Lo spiega a Vita Sergio Marelli, presidente dell?Associazione ong italiane – «Attualmente i nostri espatriati nel paese asiatico sono una cinquantina» – e lo conferma Nino Sergi, presidente di Intersos: «Abbiamo lasciato l?Iraq con gli ultimi espatriati lo scorso 30 aprile, ma a Kabul e a Maimana, nel nord dell?Afghanistan, restiamo perché a nostro avviso ci sono le condizioni per farlo». Poi perché le polemiche a mezzo stampa tra Alberto Cairo della Croce Rossa internazionale e Gino Strada di Emergency, non danno sicuramente lustro al settore. Infine per la morte mai chiarita di Stefano Siringo e Iendi Iannelli, i due giovani cooperanti romani impegnati nel programma per la riorganizzazione del sistema giudiziario afghano, trovati cadavere lo scorso febbraio. Di certo l?attenzione di mass media e comunità internazionale tutta incentrata sull?Iraq e, a causa delle sparate del presidente Ahmadinejad, sull?Iran, ha contribuito a far ?dimenticare? l?Afghanistan e, indirettamente, a farlo considerare ?sicuro? da gran parte dell?opinione pubblica. Ma per rendersi conto che così non è, basta guardare la contabilità del mese di maggio, limitandoci alle ?casualties? degli umanitari. 13 maggio 2006. Ribelli talebani – almeno così li ha ?targati? la Reuters, ma il beneficio del dubbio è d?obbligo – attaccano con un razzo un veicolo contrassegnato dalle insegne Onu sulla strada che porta ad Herat, ovest dell?Afghanistan. Nell?agguato perdono la vita un operatore dell?Unicef e un medico appartenente a un?ong partner, mentre un terzo operatore dell?Unicef rimane gravemente ferito. Tutte le vittime sono afghane. 21 maggio 2006. Un medico, due infermieri e un autista alle dipendenze dell?ong Afghan Health Development Service vengono trucidati dall?esplosione di una bomba telecomandata al passaggio della loro auto nella provincia di Wardak, a sud-ovest di Kabul. Il medico è capo-progetto nella provincia meridionale di Oruzgan, i due infermieri sono marito e moglie. Tutte le vittime sono afghane. Nell?ottobre 2005 cinque persone della stessa ong, tra cui due medici, erano state uccise vicino a Kandahar. 29 maggio 2006. Nel pomeriggio un gruppo di manifestanti inferociti si scaglia contro la sede di Kabul dell?organizzazione non governativa Oxfam situata a Taimani Road, poco distante da Shar-e-now, dove negli scontri perdono la vita almeno otto persone. Tutte le vittime sono afghane. Due funzionari dell?ong inglese sopravvivono, rifugiandosi sul tetto dell?edificio ma la sede di Oxfam subisce ingenti danni. Sempre nella capitale viene data alle fiamme la sede di Care International, l?ong per cui lavorava Clementina Cantoni, l?italiana rapita il 16 maggio 2005 e che dopo la liberazione è svanita nel nulla (già, a proposito, che fine a fatto? Non una dichiarazione, né un?intervista?). Sempre il 29 maggio la delegazione della Commissione europea a Kabul alza il livello di allerta allo stato arancione, il penultimo prima del rosso che prevede l?evacuazione immediata dal paese. Lo annunciano alcuni diplomatici Ue (non l?ottimo ambasciatore italiano, Ettore Sequi da Orgosolo) che, silenziosamente, preparano le valigie, nella speranza di tornarsene anch?essi presto a casa. 30 maggio 2006. Alle 8.30 del mattino nei pressi di Shaberghan, vicino a Mazar-e-Sharif, Afghanistan del nord, un gruppo di ribelli ?talebani? spara a un gruppo di dipendenti dell?ong ActionAid International. Muoiono sul colpo tre donne: la ventenne Benafshai, contabile, e le 45enni Karima e Sabat, entrambe assistenti sociali. Ucciso anche l?autista, Ahemad Shah. Lo rende noto la polizia locale. Tutte le vittime sono afghane. Dopo l?uccisione delle tre cooperanti di Shaberghan, il presidente di ActionAid International Italia, Marco De Ponte, precisa a Vita che, nonostante tutto, «continueremo a lavorare in Afghanistan. Certo, abbiamo rafforzato le misure di sicurezza cui dovranno attenersi nei prossimi giorni i nostri cooperanti. Ma andarsene adesso non ha senso». La cosa importante, sottolineano all?unisono lui, Sergi e Marelli, è che «l?umanitario non vada mai al traino dei militari: la credibilità che deriva dalla nostra indipendenza è e sarà in futuro la linea conduttrice dei nostri interventi».


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