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Julia Gillard: “Non ci vuole la luna per rafforzare l’istruzione nei paesi poveri”

Al via domani il Summit del G7. In esclusiva su Vita.it, l’ex Primo ministro australiano, Julia Gillard, oggi alla guida della Global Partnership for Education, lancia un appello ai leader dei sette paesi più industrializzati del mondo: “Garantire a milioni di bambini e giovani l’accesso ad un’educazione di qualità in tutto il mondo è possibile. Non farlo metterebbe a rischio il nostro futuro. A Taormina l’Italia ci ha garantito il suo sostegno all’educazione e allo sviluppo sostenibile”.

di Joshua Massarenti

Dal 26 al 27 maggio, i leader dei sette più industrializzati al mondo si riuniranno a Taormina per un Summit del G7 che non a caso l’Italia ha voluto organizzare in Sicilia, terra di approdo di decine di migliaia di migranti in fuga dalla guerra e dalla povertà. E non a caso, la presidenza italiana del G7 ha voluto imporre nell’agenda tre priorità: rispondere alle preoccupazioni dei cittadini riguardo l’attuale instabilità politica, con focus sulle migrazioni, l’Africa, il bacino mediterraneo e il terrorismo; la sostenibilità economica, ambientale e sociale, e la riduzione delle disuguaglianze; infine l’innovazione, come fonte di prosperità e di crescita inclusiva, che comprende un’attenzione particolare sulle politiche a favore dell’istruzione.

Favorire l’accesso ad un’educazione inclusiva e di qualità è l’obiettivo fissato dalla Global Partnership for Education, una piattaforma mondiale fondata nel 2002 che associa paesi in via di sviluppo, donatori, organizzazioni internazionali, società civile, settore privato, fondazioni e corpi insegnanti, con la volontà di sostenere (e finanziare) piani ambiziosi a favore dell'istruzione nei paesi poveri e intermedi. A guidare questo colosso non profit dal 2014 è Julia Gillard, prima donna ad assumere la carica di Primo ministro in Australia (2010-2013) ed ex ministro dell’Istruzione (dal 2007 al 2010).

Secondo l’ultimo rapporto dell’Unesco sull’istruzione globale, ad oggi appena il 14% dei ragazzi e delle ragazze riescono ad ottenere la maturità nei paesi poveri, e a questo ritmo solo il 70% dei bambini di questi stessi paesi riusciranno a concludere il ciclo delle elementari da qui al 2030. Sempre secondo l’Unesco, circa 260 milioni di bambini e ragazzi non hanno accesso alla scuola, altre centinaia di milioni frequentano strutture scolastiche dove la qualità dell’insegnamento è scarso.

Le sfide per assicurare entro il 2030 “un’educazione per tutti”, iscritto nei nuovi Obiettivi per lo sviluppo sostenibile, sembrano impossibili. Non per Julia Gillard, che abbiamo incontrato a Bruxelles. “Non ci vuole la luna per istruire un bambino”, assicura la presidente della Global Partnership for Education, in piena campagna di raccolta fondi per convincere i donatori tradizionali e quelli nuovi di sostenere il piano di finanziamento di GPE, pari a 3,1 miliardi di dollari per i prossimi tre anni, per consentire a 19 milioni di alunni supplementari di concludere il ciclo delle elementari, altri 6,6 milioni il ciclo delle medie, formare 1,7 milioni di insegnanti, costruire 24mila classi, produrre e distribuire 240 milioni testi scolastici. “E’ possibile”, se “ci impegniamo tutti”. A Taormina, Gillard spera che prevarrà “la volontà dell’Italia di porre grande attenzione all’educazione, settore chiave dello sviluppo sostenibile”.

Ci auguriamo che la posizione dell’Italia, in qualità di paese ospite, prevarrà durante il Summit e che il G7 sosterrà il governo italiano a favore dello sviluppo sostenibile, in particolar modo l’educazione.

Quali le sue attese per questo G7, che come ospita avrà un nuovo presidente degli Stati Uniti criticato per le sue prese di posizione rispetto agli aiuti allo sviluppo?

Durante la fase preparatoria, abbiamo avuto contatti regolari con il governo italiano, abituato a gestire con la massima cura summit di questo genere. Da Roma, ci hanno assicurato la loro volontà di porre grande attenzione all’educazione, un settore chiave per lo sviluppo sostenibile. Del resto, il G7 include delle nazioni che hanno sempre sostenuto i sistemi educativi nel Sud del mondo, penso in particolar modo al Canada e al Regno Unito. Questo del resto si riflette nelle buone relazioni che la Global Partnership for Education intrattiene con i paesi del G7, ma anche con l’Unione Europea, i paesi scandinavi, l’Australia o la Corea.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, si tratta di una donatore importante che lo scorso anno ci ha allocato 70 milioni di dollari. Il Presidente americano ha dato la sua opinione sugli aiuti esteri, bisognerà ora capire quale budget Trump intende concretamente riservare alla cooperazione internazionale e quale sarà la reazione del Congresso. Ci auguriamo che la posizione dell’Italia, in qualità di paese ospite, prevarrà durante il Summit e che il G7 sosterrà il governo italiano a favore dello sviluppo sostenibile, in particolar modo l’educazione.

Un rapporto della Education Commission di cui fa parte stima a mille milliardi di dollari i fondi spesi dai paesi di basso e medio reddito nel 2015 a favore dell’educazione, mentre bisognerebbe spenderne tre volte tanto ogni anno entro il 2030. Quali sono i rischi più grandi che dovremmo affrontare in futuro se questi paesi non dovessero raggiungere questo target, soprattutto in Africa?

Secondo il Rapporto dell’Education Commission, nel 2030 ci saranno 1,6 miliardi di bambini e giovani che andranno a scuola nel mondo. Se continueremo a spendere gli stessi fondi senza i dovuti aumenti, circa 825 milioni di loro usciranno dal sistema scolastico con un livello di conoscenze inferiore a quello delle medie. Questo perché c’è chi non frequenterà mai una scuola, chi lo farà per un breve periodo oppure in strutture scolastiche dove la qualità dell’insegnamento sarà molto basso. Il rapporto dell’Education Commission è molto chiaro: se le cose non cambieranno, il nostro futuro sarà a rischio.

Se non aumentano i finanziamenti a favore dell'educazione, circa 825 milioni di loro usciranno dal sistema scolastico con un livello di conoscenze inferiore a quello delle medie nel 2030.

Per quali motivi?

Il mercato del lavoro richiede mestieri sempre più qualificati che un livello di insegnamento poco qualificato non riuscirà a soddisfare. Di conseguenza, molti degli studenti che proveranno ad entrare in questo mercato non avranno le competenze sufficienti per trovare un lavoro. A subirne i danni non sarà soltanto la crescita economica mondiale, ma anche la pace e la stabilità. I fatti ci dimostrano che un numero elevato di bambini e giovani privi di un’educazione di qualità, quindi senza lavoro né prospettive nella vita, non fa altro che alimentare i rischi di disordine sociale e guerre civili. Aumentano pure i problemi nel settore sanitario, perché sappiamo che una buona educazione è determinante per combattere malattie come l’Hiv, nonché i flussi di migranti alla ricerca di un’educazione migliore per i propri figli.

Ma c’è una buona notizia: scongiurare questi rischi è possibile. Se, come sostiene il rapporto dell’Education Commission, ogni paese segue l’esempio dei paesi più virtuosi – circa il 25% nel mondo – allora da qui al 2030 avremo una generazione di studenti qualificati. Non ci vuole la luna per educare un bambino.

Cosa deve fare un paese in via di sviluppo per raggiungere questo obiettivo?

Molti non lo sanno, ma la maggior parte del budget allocato per il settore educativo nei paesi in via sviluppo proviene da questi stessi paesi. Per compiere un passo avanti è necessario mobilitare fondi esterni, e questo è il compito della Global Partnership for Education. Stiamo promuovendo una campagna per raccogliere 3,1 miliardi di dollari che ci consentirà di erogare due miliardi di dollari all’anno da qui al 2020 a favore dei sistemi educativi nazionali dei paesi più poveri e di quelli intermedi.

Stiamo sollecitando molti donatori, da quelli tradizionali a quelli nuovi, che comprendono fondazioni filantropiche e il settore privato. A questi donatori possiamo dimostrare che il sistema educativo dei paesi sostenuti dalla Global Partnership for Education è di un livello superiore rispetto a quei paesi che non lo sono. Tuttavia, la mobilitazione di risorse esterne non basta. E’ necessario per i paesi beneficiari rafforzare il loro sistema di tassazione e accrescere il loro budget nazionale da destinare all’educazione.

Se, come sostiene il rapporto dell’Education Commission, ogni paese segue l’esempio dei paesi più virtuosi – circa il 25% nel mondo – allora da qui al 2030 avremo una generazione di studenti qualificati.

Da qui al 2050 la popolazione africana raddoppierà, passando da un miliardo a due miliardi di abitanti, con centinaia di milioni di giovani che vorranno accedere a scuole di qualità e ottenere un buon lavoro. Come soddisfare richieste così legittime?

Penso che sia possibile. Anzi, un numero così elevato di giovani può essere un grande dividendo demografico. Quando parliamo della sfida di educare ogni bambino nel mondo, non voglio dare l’impressione che i milioni di giovani africani di domani sono un fardello. Se scolarizzati in modo corretto, questi ragazzi e ragazze possono cambiare il volto dell’Africa, se non del mondo.

Ma come raggiungere questo obiettivo?

Dalla nostra esperienza, bisogna collaborare con i paesi in via di sviluppo, la società civile, il mondo della filantropia e altri donatori, mettere insieme le risorse e le persone per sviluppare un piano globale per l’educazione. Sulla carta, sembra semplice. Ma in tanti paesi africani, non sono mai esistiti piani ambiziosi e complessi a favore di un’educazione di alta qualità. Questo è l’obiettivo della Global Partnership for Education, che è impegnato a raccogliere più fondi presso i donatori internazionali che reinvestiamo nei paesi beneficiari, a loro volta spinti ad accrescere le loro risorse domestiche per favorire un sistema educativo di qualità.

Stiamo promuovendo una campagna per raccogliere 3,1 miliardi di dollari a favore dei sistemi educativi nazionali dei paesi più poveri e di quelli intermedi.

Dal Senegal al Malawi, passando per il Rwanda, esistono paesi africani che sono riusciti ad elaborare e implementare questo tipo di piano, consentendo a molti ragazzi e ragazze di completare il ciclo dell’elementare e quello delle medie. In alcuni di questi paesi, c’è stato un incremento generale del 10% di alunni che sono riusciti a finire le elementari, addirittura del 15% tra le femmine. Grazie alla Global Partnership for Education globale, abbiamo consentito a sei milioni di bambini di frequentare una scuola.

Con il nostro nuovo piano di finanziamento, vogliamo permettere a 19 milioni di alunni supplementari di concludere il ciclo delle elementari, altri 6,6 milioni il ciclo delle medie, formare 1,7 milioni di insegnanti, costruire 24mila classi, produrre e distribuire 240 milioni testi scolastici.

In alcuni paesi africani in cui interveniamo, c’è stato un incremento generale del 10% di alunni che sono riusciti a finire le elementari, addirittura del 15% tra le femmine. Grazie alla Global Partnership for Education globale, abbiamo consentito a sei milioni di bambini di frequentare una scuola.

Nell’era degli Obiettivi del Millennio (2000-2015), gli sforzi della Comunità internazionale si sono concentrati sulla scuola elementare, a sfavore di quella secondaria e delle università, che sono di conseguenze molto calate sul piano qualitativo. Come ridurre questo divario?

Le sfide erano talmente grandi che tutto non si poteva fare, bisognava iniziare da qualche parte. Il problema è che gli sforzi forniti sono stati più di quantità che di qualità. E’ inutile costruire scuole e classi se dentro non ci mettiamo insegnanti bravi e stimolati, se non si distribuiscono manuali che arricchiscono davvero gli studenti. Così come sono stati concepiti, i nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile ci potrebbero consentire di fare questo salto di qualità tanto atteso, non soltanto per gli insegnamento primario ma anche quello secondario.

Le migrazioni si stanno imponendo come una sfida prioritaria nell’agenda internazionale, in particolare quella dei paesi europei e degli Stati Uniti. C’è chi sostiene che i candidati all’emigrazione non sono i più poveri, e che migliorare l’istruzione non farà altro che alimentare i flussi migratori. E’ un giudizio condivisibile?

Dobbiamo stare un pò cauti quando si parla di flussi migratori, anche perché le loro cause spesso divergono fra loro. Di sicuro, sono sempre alimentate da una mancanza di prospettive per il futuro di tante persone e molto spesso dall’assenza totale o parziale di opportunità offerte a milioni di bambini e ragazzi nel campo dell’istruzione.

In Siria, la gente è scapatta da un conflitto per andare alla ricerca di una vita migliore, per se stessi e per i proprio figli. Inoltre, le immagini diffuse dai media sui profughi nel loro tentativo di entrare in Europa ha dato l’impressione che questo fenomeno riguardasse soprattutto l’Europa, quando in realtà i primi ad esserne colpiti sono i paesi in via di sviluppo.

Il Ciad è uno paese tra i più poveri al mondo che, oltre a dover garantire un’istruzione di qualità ai propri cittadini, è alle prese con un flusso molto importante di migranti, con rifugiati minorenni che necessitano di andare a scuola.

Prendiamo l’esempio del Ciad, dove operiamo. E’ un paese tra i più poveri al mondo che, oltre a dover garantire un’istruzione di qualità ai propri cittadini, è alle prese con un flusso molto importante di rifugiati provenienti dalla regione del Lago Ciad, con rifugiati minorenni che necessitano di andare a scuola. La sfida è immensa, e stiamo cercando di aiutare il governo ciadiano come meglio possiamo ad affrontarla. Certo, la gente si muove non solo per motivi di sicurezza, ma anche per dare ai propri figli un’educazione migliore. L’unico modo per frenare questo genere di flussi, è investire nei paesi in via di sviluppo.

Detto questo, ci saranno sempre persone in movimento alla ricerca di una scuola, un’università o un lavoro migliore a cui desiderano accedere. Se uno studente è qualificato nel campo delle scienze informatiche, la prima domanda che si porrà sarà: “qual’è il posto migliore nel mondo dove posso rafforzare le mie competenze?”. E’ una domanda naturale. In India, ci sono tanti giovani che vogliono andare a studiare o a lavorare nella Silicon Valley, per il semplice motivo che è il luogo numero uno al mondo per tutto quello che riguarda le nuove tecnologie. Questo tipo di migrazione esisterà sempre. E se è vero che la stragrande maggioranza di chi migra da questi paesi tende a inviare soldi ai familiari rimasti in madrepatria, prima o poi c’è chi decide di tornare a casa con un bagaglio di competenze molto importante che possono fare la differenza per un paese povero.

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