Famiglia

Jean- Marie Le Pen. Il bluff

Il fantasma del leader del Fronte Nazionale ha tolto il sonno alla sinistra europea per settimane. Ma è stata una paura fuoriluogo.

di Fabrizio Tonello

L?82,5 per cento ottenuto da Chirac sarà sufficiente per superare lo choc provocato in tutta Europa dal ballottaggio tra quest?ultimo e Jean-Marie Le Pen? Qualche ragionamento meno improvvisato di quelli offerti da Francesco Rutelli a Repubblica (in cui ha sposato la tolleranza zero nei confronti dei clandestini) è d?obbligo: se non lo si fa, quanto è avvenuto diventerà davvero un terremoto politico e sotto le macerie rimarrà la sinistra europea tutta intera.

E’ stato uno choc soltanto simbolico. Perché per la prima volta l?estrema destra andava al ballottaggio. In realtà i numeri non dicevano niente di sorprendente…

Il punto da cui partire è che, al primo turno, non c?è stato un massiccio spostamento di voti verso destra, né un trionfo di Le Pen. Chirac non aveva ottenuto nemmeno il 20% dei suffragi, pur essendo il presidente in carica e in assenza di candidati forti dell?Udf , l?altro partito conservatore francese. Al contrario, la destra parlamentare, che nel 1995 aveva raccolto al primo turno circa 13,5 milioni di voti, quest?anno (frammentata tra cinque candidati) ne aveva raccolti 9,6 milioni, quasi 4 milioni di meno.
Le Pen, al primo turno, aveva guadagnato appena 900mila voti rispetto al 1995 e al secondo ha ripreso i suoi 5,5 milioni di voti malgrado siano andati a votare 2 milioni di francesi in più. Lo choc è quindi tutto simbolico: per la prima volta l?estrema destra francese è stata presente al ballottaggio, per la prima volta (dal 1969) la sinistra è stata esclusa dal ballottaggio e sarà probabilmente sconfitta alle legislative di giugno.
Tutto questo, in realtà, nasce dalla debolezza di Jospin e dalla sua incapacità di mobilitare l?elettorato socialista, dalla sua pessima campagna elettorale, senza slancio ideale, che ha inseguito Chirac su un terreno (quello della microcriminalità) dove non poteva che perdere.

I francesi vivono come un trauma il declino dello stato. Ormai le decisioni che contano sono spostate in organi transnazionali, soprattutto dopo Maastricht.

Il voto rimarrebbe tuttavia incomprensibile se non lo collocassimo dentro la crisi dell?intera cultura politica francese e se non guardassimo ai dati da una prospettiva differente.
Il punto da cui partire è che tutte le culture politiche moderne sono legate nel loro funzionamento all?idea di Stato. Dal 1789 in poi, la politica europea si svolge in un quadro statuale: difendere o modificare i confini, riformare le istituzioni, allargare il suffragio elettorale. Lo Stato-nazione ha garantito la sicurezza dei cittadini, assicurato il compromesso sociale, mantenuto esattamente per due secoli le sue prerogative. Non è un caso che espressioni della politica moderna come Raison d?état o Coup d?état siano nate in francese e rimangano in questa lingua: negli Stati Uniti l?espressione Reason of State non esiste.
In Francia, il culto dello Stato ha modellato il personale politico: in fondo la Quinta repubblica francese è stata, dal 1958 in poi, un tentativo di restaurare le prerogative dello Stato in un?epoca in cui queste si andavano indebolendo. La perdita di potere è avvenuta molto lentamente, ma solo perché gli orpelli del cerimoniale nascondevano la realtà: ancora nel 1981 François Mitterrand poteva illudersi di nazionalizzare tutte le banche, l?industria elettronica e quella militare. Meno di due anni dopo era costretto a invertire la rotta. Dopo il 1989 e dopo il trattato di Maastricht, la politica monetaria si è trasferita altrove: nelle stanze di quelli che un tempo a Parigi venivano chiamati con disprezzo gli ?gnomi di Zurigo? e nei saloni della Banca centrale europea di Francoforte. L?euro è la nuova moneta anche per i francesi e alla Banca di Francia ormai resta soltanto il compito di vigilare sugli assegni a vuoto.
Una rete di trattati e di istituzioni sovranazionali, che sarebbe più preciso definire ?imperiali?, ha sostituito i tradizionali luoghi decisionali come la presidenza della Repubblica, il governo, la Banca di Francia. Le campagne elettorali non sono state abolite, ma rese superflue: chiunque venga eletto non può che applicare il Patto di stabilità, far quadrare il bilancio, cercare la fiducia degli investitori stranieri. Per chi sgarra, ci sono la Commissione di Bruxelles, la Banca europea o il Wto incaricati di richiamare all?ordine. Senza parlare dei mercati finanziari, che con pochi ?clic? possono lasciare un Paese a secco di capitali in minor tempo di quanto ne occorra per leggere questo articolo.
è questo nuovo assetto imperiale e post democratico che ha provocato nella cultura politica francese l?effetto ?campo di rovine? di cui hanno parlato numerosi politologi. Mentre i rituali proseguono come sempre (i candidati vanno nei mercati a stringere mani e baciare bambini), gli elettori si rendono conto che tutto questo è diventato uno spettacolo. La loro reazione prende due forme: l?astensionismo di massa, ormai a livelli americani, e il voto per formazioni politiche anti imperiali.

Anti imperiali
ESTREMA SINISTRA: Laguiller, Besanceot, Gluckstein: 12,62%
SINISTRA: Mamère, Hue: 11,04%
ALTRI: Chevènement, Le Pen, Mégret, Saint-Josse: 26,64%
Totale: 48,22%

Filo imperiali
DESTRA: Chirac, Bayrou, Madelin, Lepage, Boutin: 33,41%
SINISTRA: Jospin, Taubira: 18,44%
Totale: 51,85%

La tabella riclassifica i candidati del primo turno delle elezioni presidenziali francesi in base al loro orientamento nei confronti di questa perdita di sovranità. In alto, a sinistra troviamo le forze politiche dell?estrema sinistra (i tre candidati trozkisti) e quelle della sinistra moderata che però rivendicano dei provvedimenti (classisti o ecologisti) poco compatibili con la sovranità incondizionata del mercato: comunisti e verdi.
Esiste però anche un forte blocco di sostenitori dell?autonomia e dell?indipendenza nazionale che non sta affatto a sinistra: l?ex ministro socialista Chevènement, il candidato di cacciatori e pescatori Saint-Josse e l?estrema destra di Le Pen. Tutti costoro sono contro l?Europa, contro le privatizzazioni, contro la dittatura della Borsa. Naturalmente, non sanno bene come recuperare la sovranità perduta, ed è probabile che se Le Pen fosse stato eletto non avrebbe fatto in materia di politica economica granché di diverso da quello che farà Chirac. Ma, idealmente, il loro nazionalismo li conduceva a essere ostili alla rete di istituzioni imperiali che, poco a poco, ha preso il controllo della politica economica e fiscale.

La percentuale degli anti imperiali è la stessa di quelli contrari a Maastricht nel referendum del 1992
Nella parte inferiore della tabella, troviamo invece i due candidati ?maggiori? che accettavano come del tutto inevitabile la situazione creatasi dopo il 1989 e dopo il trattato di Maastricht: Chirac e Jospin. Accanto a loro, i candidati minori del centrodestra (Madelin, Lepage e Boutin) o del centrosinistra (Taubira).
La somma dei due campi dà un risultato significativo perché corrisponde quasi esattamente alle percentuali con cui fu ratificato il trattato di Maastricht: 51 a 49. Nonostante l?impegno massiccio di tutti i media, al referendum del 20 settembre 1992, quasi metà dei francesi votò contro. Il ceto politico, da Mitterrand a Chirac, tirò un sospiro di sollievo (esattamente come è avvenuto dopo il secondo turno) ma la frustrazione nell?elettorato non fece che crescere. I risultati del primo turno sono il punto di arrivo del processo di implosione di una cultura politica in cui la sovranità nazionale era sempre stata considerata non negoziabile e questa realtà non è stata affatto modificata dal secondo turno.
Arlette Laguiller, Jean Saint-Josse, Jean-Pierre Chevènement e Jean-Marie Le Pen e gli altri erano stati votati da quasi un francese su due precisamente perché non potevano vincere, ovvero non potevano assumere il ruolo di diligenti funzionari dell?impero. Che non avessero nulla in comune e conservassero, nello stile politico, traccia delle loro origini ideologiche opposte era meno importante che il loro status di oppositori.
Jospin era personalmente onesto e politicamente disposto a concessioni a vantaggio dei ceti più deboli, ma la sua collocazione nel gioco politico era quella di rappresentante delle istituzioni ?imperiali?, quelle istituzioni cui non importa nulla delle periferie degradate, della disoccupazione, della microcriminalità, della perdita di senso e di speranza nella vita indotte dal pensiero unico e dal culto della Banca europea.
Il dramma della sinistra, in Francia come in Italia, sta tutto qui: nell?offrire ai suoi elettori soltanto la scelta fra chi non vuole governare e chi lo vuole troppo, fra chi si ispira a Porto Alegre e chi si ispira a Washington. Nel tenere nascosta la questione cruciale della democrazia del nostro tempo, quella della perdita di sovranità. In questo senso, il problema non è puramente cosmetico e non si può risolvere né rincorrendo la destra nella caccia all?immigrato (Rutelli, vergognati!) né «dicendo qualcosa di sinistra» nei due mesi che precedono il voto. Altrimenti si raccoglie solo il 16 per cento, come è capitato l?anno scorso ai Ds.

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