Cultura
Jacobin, la rivista (di sinistra) che seduce l’America
Un editore giovanissimo, una redazione diffusa, decine di ricercatori e analisti, circoli di lettura, dibattiti, tattiche per il web e strategie per il cartaceo. Con una grafica bellissima e contenuti senza sconti una rivista socialista ha vinto la sua battaglia. E disegna un futuro digitale per il mondo delle idee
di Marco Dotti
“In economia ci sono due soluzioni. O sei leninista. O non vuoi cambiare niente". Parole di un insospettabile, François Mitterand. Parole con cui si apre l'ultimo numero di una rivista che si sta affermando tra le voci più interessanti del panorama intellettuale americano. Parliamo di Jacobin, trimestrale di sinistra, con più di 15mila abbonati e un pubblico sul web di oltre 700mila visitatori affezionati.
Nata come rivista online nel 2010, dopo i primi passi nella rete Jacobin ha scelto di puntare anche sulla carta. L'alchimia è apparsa subito vincente: cultura, politica, economia trattate con stile e rigore, un punto di vista esplicitato ed esplicito e una grafica increbile.
Jacobin prende nome dalla straordinaria epopea della rivoluzione di Haiti descritta nel 1938 da Cyril Lionel Robert James: The Black Jacobins. Il logo della rivista riproduce l'eroe di quella rivoluzione, l'haitiano Toussaint Louverture, il giacobino nero.
Radicale, a sinistra, ma lontana dal riproporre schemi mentali da guerra fredda, Jacobin è stata fondata ed è tutt'oggi edita da Bhaskar Sunkara, un ventisettenne del Bronx, originario di Trinidad, studi di politica internazionale alla George Washington University, che si è formato su 1984 di George Orwell e si considera "fortunato di non aver preso in mano un libro di Ayn Rand o Milton Friedman prima di Trotsky".
La redazione di Jacobin lavora molto sulla sinergia digitale-cartaceo. Sul web, la media è di 2-3 articoli originali al giorno, per un totale di circa 500 pezzi l'anno. Quasi tutti i collaboratori sono di età inferiore ai 35 anni, non per scelta "aziendale", ma per naturale vocazione della rivista ad attrarre giovani ricercatori di sociologia, economia e antropologia culturale. "La rivista stampata detta un tema, il web è tutto il resto" osserva Sunkara, "col web attraiamo lettori che, poi, cerchiamo di fidelizzare anche con gli abbonamenti su carta".
Un'altra caratteristica di Jacobin sono i "gruppi di lettura", nazionali e internazionali. Se ne contano già una sessantina. Si riuniscono una volta al mese e hanno uno slogan: "Don’t study collective action alone". Non studiare da solo l'azione collettiva. Dalla lettura all'azione, insomma. I gruppi di lettura sono parte dell'attivismo di Jacobin. Un attivismo non dottrinario, né settario. I gruppi devono essere "vivaci, aperti". Ma soprattutto: sono gratuiti, senza tessere, senza rituali segreti o altro. Sono gruppi di lavoro intellettuale, spazi sociali aperti a neofiti e esperti che – leggiamo sul magazine – devono "superare i confini dell'organizzazione", commentando, criticando, leggendo gli articoli presentati sulla rivista, promuovendo temi e altri articoli.
L'apparizione di "Jacobin" è stata come un raggio di luce in tempi oscuri. Ogni numero porta uno sguardo penetrante, di una sinistra riflessiva, su questioni davvero cruciali del nostro tempo. Un contributo di lucidità mentale e di speranza
Noam Chomsky
Sono inevitabilmente moltissimi i temi sociali trattati da Jacobin. Nell'ultimo numero, dedicato citando una canzone di Ben Harper non alla "terza via", ma alla "via migliore" (The Better Way), segnaliamo un articolo di Premilla Nadasen, sull'uomo che – il titolo dell'articolo suono proprio così – "ha sventrato il welfare, criminalizzato i poveri e incanalato fiumi di denaro nello Stato carcerario": Bill Clinton. Sconti e saldi di fine stagione sono finiti, anche a sinistra. E ai lettori piace proprio così.
Immagine di Matt Ferguson tratta da "Not war, but ape" di Eilen Jones su Jacobin
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