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Iva al Terzo settore: come uscire dall’angolo

Senza un intervento del Governo dal prossimo gennaio le attività che le associazioni di Terzo settore svolgono a favore dei soci e per le quali incassano una quota supplementare saranno attratte nel campo di applicazione dell’Iva. Marina Montaldi, componente del Tavolo tecnico legislativo del Forum nazionale del Terzo settore, lancia una proposta per mitigare un provvedimento che metterebbe in difficoltà le associazioni, senza dare benefici alle casse pubbliche

di Marina Montaldi

Dal 1° gennaio 2025 le attività che le associazioni di Terzo settore svolgono a favore dei soci e per le quali incassano una quota supplementare saranno attratte nel campo di applicazione dell’Iva, anche se di natura conforme alle finalità istituzionali.

Ci riferiamo, per fare qualche esempio, anche al laboratorio teatrale o musicale destinato ai soci anziani, al dopo-scuola (assistenza ai compiti e ricreazione) dedicato ai minori, al laboratorio linguistico o di scrittura creativa per associati di ogni età e attitudine, oppure al “baretto  sociale” dell’associazione di promozione sociale ospitata nella parrocchia o presso il centro sociale/comunale di quartiere. Attività diverse ma tutte trasversalmente accomunate dall’esistere in quanto funzionali a favorire socialità, partecipazione, mutualità e a contrastare fenomeni di marginalità sociale.

È l’effetto dell’applicazione generalizzata della norma che il legislatore ha introdotto per rispondere ai rilievi della procedura di infrazione n. 2008/2010. I rilievi, come è noto, riguardano l’art.4, commi 4 e 5 del dPR n. 633/72, nella versione ancora vigente fino al 31 dicembre prossimo, in cui si regola la casistica per la quale i soci versano un corrispettivo all’associazione a fronte del servizio ricevuto. La Commissione europea ha infatti concluso che questa disciplina contrasta con la Direttiva  Iva n. 112/2016, i cui principi prevalgono sulla norma nazionale essendo relativi  ad un tributo “armonizzato” tra i paesi membri, e non rilevando a tal fine la coerenza delle attività rispetto agli scopi sociali in quanto, spiega la Commissione, il requisito essenziale per l’Iva è di carattere essenzialmente oggettivo, e si concentra nel versamento della quota a fronte del servizio reso, ossia nella natura corrispettiva della quota stessa rispetto alla prestazione offerta dall’associazione.  

COSA CAMBIA?

La conclusione, in astratto, è ovviamente corretta (la sola qualità del soggetto non è sufficiente per connotare il fuori campo Iva delle operazioni) e ne deriva, in prima battuta, che anche le associazioni di Terzo settore dovranno aprire partita Iva per queste attività. Saranno assimilate, di fatto, ad un operatore di mercato, e dovranno implementare un sistema/assetto amministrativo dedicato (o sopportare l’onere della sua esternalizzazione ad un professionista) per adempiere agli obblighi strumentali conseguenti (scritture, fatturazione, certificazione dei corrispettivi, comunicazioni delle liquidazioni periodiche Iva e dichiarazione annuale). Dovranno corrispondere l’Iva all’erario? In realtà le associazioni la pagano già, perché oggi agiscono come “consumatore finale”, quindi non detraggono l’Iva pagata sugli acquisti dei beni e servizi impiegati in queste attività. Il futuro, da questo punto di vista, per molte di esse non cambierà, perché la maggior parte delle attività conformi agli scopi istituzionali saranno esenti da Iva, e dunque sul contributo specifico (il cosiddetto “corrispettivo”) pagato dal socio non sarà applicata Iva: l’erario si accontenterà infatti di incassarla, come oggi, sugli acquisti pagati dall’associazione. Tutto come prima dunque? No, perché come detto, rimangono i cosiddetti “obblighi strumentali”, che per l’ente rappresentano oneri non solo formali, ma anche sostanziali, dati dal “costo implicito” dell’organizzazione necessaria ad ottemperare ai nuovi adempimenti.  

Risorse sottratte alla missione sociale, dunque, senza alcun vantaggio per l’erario. 

Se, infatti, considerando i tre “attori convolti” nel processo, ossia associazioni, erario ed interesse generale, volessimo dilettarci a costruire lo schema finale dei “vincitori e vinti” di quest’operazione dovremmo concludere che tra i secondi ci sono sicuramente sia le associazioni che l’interesse generale da queste perseguito, mentre in posizione “neutra” si attesterebbe l’erario. Nessun “vincitore”.

OBBLIGHI STRUMENTALI E SEMPLIFICAZIONI “APPARENTI”

Va detto che è possibile “alleggerire” gli obblighi strumentali optando per la “dispensa dagli adempimenti” (art. 36-bis, dPR n. 633/72). In questo caso l’associazione non sarà tenuta a fatturare e registrare le operazioni esenti, né a presentare la dichiarazione Iva, ma permarrano gli ulteriori obblighi previsti dalla norma Iva quali la registrazione degli acquisti e l’emissione della fattura su richiesta del socio che ha ricevuto il servizio, precisando che l’emissione dovrà avvenire in formato elettronico, e al socio andrà altresì rilasciata copia digitale o cartacea.  

Va comunque ricordato che la “dispensa” non si estende ad altre attività rilevanti eventualmente svolte (ad esempio, l’affitto degli spazi ed attrezzature per la realizzazione di tavole rotonde o seminari), ma soprattutto che in presenza di queste attività occorre rinunciare alla dispensa anche per l’attività esente,  salvo che l’associazione sacrifichi la detrazione dell’Iva sugli acquisti delle attività non esenti (ponendo tutta l’Iva sugli acquisti indetraibile),  oppure rinunci alla semplificazione di una contabilità unica tra attività esenti e non, e adotti contabilità separata per ciascuna. 

Ad esempio, se l’associazione per autofinanziarsi vende al pubblico i propri gadget (magliette, spille, cappellini, biro ecc..) l’attività in questione è chiaramente imponibile, e già inquadrata e trattata in ambito Iva. Con l’avvento in campo Iva anche delle attività verso i soci, oggi escluse, la possibilità per queste ultime di accedere all’alleggerimento degli obblighi strumentali tramite la “dispensa” implicherà che l’Iva pagata sugli acquisti (tutti, anche quelli riferiti ai gadget) dovrà essere interamente indetraibile. Per “salvare la dispensa” l’associazione dovrà separare le contabilità delle due attività. La possibilità di mantenere un’ unica contabilità implica il “sacrificio” di rinunciare alla dispensa e riportare per l’insieme delle attività, anche quella esente quindi, tutti gli adempimenti (liquidazioni, dichiarazione, registrazioni, Lipe). In questo caso l’associazione potrà detrarre in pro-rata (ossia per quota-parte) l’Iva sugli acquisti, in proporzione ai “ricavi” delle due attività. 

EFFETTI “COLLATERALI” DELLA SOGGETTIVITA’ IVA

Vi sono poi quelli che potremmo definire gli “effetti collaterali” dell’acquisto della soggettività Iva, che in buona sostanza riguardano l’attrazione in campo Iva delle attività “a corrispettivo” svolte saltuariamente. Ad esempio, l’associazione che, invitata dal Comune o dai Municipi locali partecipa occasionalmente alla sagra del quartiere, con attività di socialità e somministrazione, oggi riporta i relativi corrispettivi solo nella dichiarazione dei redditi, senza nessun adempimento specifico per l’Iva. Dovendo aprire la partita Iva per le attività verso i soci, anche la “sagra occasionale” diventa rilevante, e l’attività sarà attratta in campo Iva, con ogni conseguenza sostanziale (imponibilità Iva) e strumentale (obblighi di certificazione, di registrazione, di liquidazione, di dichiarazione ecc..) e la necessità di valutare se adottare/conservare la dispensa dagli adempimenti (v. sopra).   

LA SORTE DEI “BARETTI SOCIALI” 

Un discorso a parte meritano i cosiddetti “baretti sociali” (o mescite sociali). Per i corrispettivi pagati dai soci è prevista l’imponibilità, dunque agli obblighi strumentali si aggiungeranno quelli relativi alla liquidazione dell’Iva. La differenza rispetto alla situazione attuale sarà rilevante, perché oggi su queste attività non si detrae l’Iva sugli acquisti, dunque l’associazione si comporta, al pari di quanto già visto, come un consumatore finale, e tale si percepisce. In futuro potrà detrarre l’Iva sugli acquisti da quella “estratta” dalle quote supplementari versate dai soci (Iva sulle prestazioni meno Iva sugli acquisti),   ed è pronosticabile che l’assenza sistematica della ricerca di “margini” sulle spese affrontate per approntare il servizio (i contributi erogati dai soci sono spesso equivalenti o minori rispetto ai costi d’acquisto), in aggiunta alla presenza di un’aliquota Iva sulle prestazioni (10%) inferiore mediamente a quella sugli acquisti, determinerà la formazione di crediti Iva in favore delle associazioni, e la necessità per l’erario di impiegare risorse a tal fine. 

Qui, dunque, lo schema “vincitori-vinti” produce un risultato ancora più distopico rispetto alla casistica in esenzione, perché è prevedibile che le associazioni rimangano in posizione di “neutralità” (a fronte dei probabili crediti Iva, occorre pur sempre conteggiare i maggiori oneri organizzativi di gestione), mentre l’erario sembrerebbe il vero looser.

IVA, MISURA INEVITABILE PER TUTTI?

A fronte dello scenario riepilogato, è lecito chiedersi se è davvero inevitabile questo esito generalizzato, oppure esista uno spazio di convergenza dove tecnica normativa e ragionevolezza possano ricomporsi in un equilibrio funzionale ad entrambe.

La disposizione adottata dal legislatore risponde all’esigenza di richiamare in sede Iva le quote con natura di corrispettivi, anche se versate dagli associati: dato il contesto dispositivo attuale della disciplina unionale, la sua legittimità a permanere non è tema di discussione.   

Semmai occorre chiedersi se il quadro definito sia in grado di restituire nella sua interezza il fenomeno dei rapporti “mutuali” nelle realtà associative di Terzo settore, o se questi riflettano modalità che meriterebbero di essere attenzionate con disciplina dedicata. Questa riflessione è tanto più rilevante, quanto è più ricorrente l’esperienza di osservazione della persistenza di tali modalità presso queste realtà associative, ricorrenza che non è casuale, bensì direttamente discendente dalle logiche di missione sociale che presiedono, e dunque forgiano e indirizzano in sede applicativa la gestione di queste attività. 

Si pensi, per fare qualche esempio: (i) alle quote supplementari determinate in misura largamente superiore alla soglia del costo “di produzione”,  così come delle valutazioni correnti nel mercato per servizi equivalenti, in quanto autodeterminate dagli associati in funzione dell’acquisizione di risorse per il finanziamento diretto di specifiche attività solidali e gratuite; (ii) al contributo  predeterminato ad un dato importo, tenendo conto che una quota dei fruitori-soci devono intendersi esonerati dal pagamento (soggetti fragili per condizioni economiche o sociali); (iii) alla predeterminazione di quote differenziate, in ragione di categorie sociali-anagrafiche diversificate e meritevoli, secondo la missione associativa, di specifico supporto/attenzione (es. bambini, adolescenti, terza età); (iv) al contributo istituito in misura di “minorità” rispetto al costo effettivo del servizio, allo scopo di favorire un accesso ampio alla sua fruizione, quale mezzo che realizza:

  • direttamente le finalità sociali (si pensi ad un corso di alfabetizzazione digitale dedicato agli associati anziani)
  • indirettamente, aggregando le persone e favorendo la socializzazione di categorie fragili o a rischio di marginalità sociale, e la loro collocazione in un contesto di valorizzazione comunitaria e civica 

Non si sta dunque immaginando il ripristino di un’esclusione Iva per le associazioni di Terzo settore in quanto tali, ossia di matrice soggettiva, bensì di riflettere sul fatto che il modo di condurre le attività in diretta derivazione delle logiche di missione sociale che le presiedono, è in grado di porre in predicato, secondo i termini espressi dalla Cgue la natura corrispettiva della quota supplementare erogata dal socio. 

LA POSIZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA

Afferma la Corte, con principio consolidato, che il corrispettivo è tale se rappresenta il “controvalore effettivo del servizio”, ossia se l’importo erogato ha un legame diretto e, di fatto, esclusivo con la prestazione, dovendo esserne esclusa altra causa rilevante.  

La Corte ha avuto modo di restituire un contenuto concreto di questo principio, in particolare nella causa CGUE C-246/08, Commissione Europea vs. Finlandia, nella quale si discuteva della rilevanza IVA delle somme che gli utenti pagavano per accedere a servizi legali offerti da ente pubblico al di fuori dell’esercizio dei suoi pubblici poteri, dunque alla stregua di qualunque operatore “privato”, tanto è vero che le somme erano commisurate in misura percentuale agli onorari legali correnti di mercato. Ebbene la Corte ha dedotto che essendo l’onorario determinato non in funzione essenziale di “logiche economiche” quali la remunerazione delle ore-lavoro e la difficoltà della causa, ma intervenendo fattori concorrenti estranei a tali logiche, quali il reddito e il patrimonio del beneficiario, non riusciva a consolidarsi il nesso diretto tra servizio e sua remunerazione, e dunque a riconoscersi la natura corrispettiva dell’importo pur pagato dagli utenti a fronte della prestazione. 

RIFLESSI SULL’EVOLUZIONE POSSIBILE DELLA NORMA NAZIONALE

Ora, pur con le cautele che sono sempre necessarie quando si riflette in termini comparativi tra casi concreti, non può sfuggire né il senso del principio plasticamente offerto dalla Corte, né la sua idoneità a cogliere i termini reali della natura delle attività di cui qui ci si occupa.  

Occorre dunque fare uno sforzo, anche di natura tecnica, per estrapolare questa fattispecie, che non è marginale bensì sistemica presso le realtà associative di Terzo settore, dalla regola corrente del campo Iva, per ricollocarla nella sua dimensione reale, che è erogativa (fattispecie di “consumo partecipativo”) e non “produttiva”. 

Un’ipotesi applicativa utile a raccogliere la suggestione potrebbe essere quella di individuare nel “costo effettivo” del servizio, come determinato ai sensi del Codice del Terzo settore, il riferimento cui ancorare la verifica di assenza del nesso diretto. In altri termini, se il contributo supplementare si discosta dal costo effettivo per ragioni che nulla hanno a che vedere con determinanti di natura economica (come viceversa accade per gli operatori economici, che sono guidati esclusivamente da logiche “mercantili”, dirette o indirette), si riconosce la natura non corrispettiva dell’erogazione. La proposta, comunque perfettibile, avrebbe il pregio di un ancoraggio chiaro e dell’adozione di un criterio già destinato all’adozione.  

Ovviamente resterebbe fermo che, in assenza delle condizioni richieste, andrebbero ad applicarsi le disposizioni ordinarie anche per le attività delle associazioni di Terzo settore, ancorché condotte verso gli associati.


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CONCLUSIONI

Il riconoscimento con disposizione ad hoc della sussistenza a termini strutturali di dinamiche discoste dal modello che giustifica l’attrazione in campo Iva appare essenziale ad evitare che il risultato dell’applicazione generalizzata della normativa conduca, rispettivamente, ad esiti: (i) irrilevanti sul piano della tutela del “mercato”; (ii) neutri o addirittura negativi per l’interesse erariale; (iii) di certa onerosità per gli enti. 

Un “corto circuito” prevedibile allorché fenomeni diversi da quelli pensati dal legislatore sono costretti ad indossare un abito normativo non appropriato. Un esito che, anche in ossequio ad un canone-cardine della normativa europea, il principio della proporzionalità delle misure legali adottate dagli stati membri,  è interesse di tutti evitare.      

Foto: circolo Arci Kontiki di Torino/Archivio VITA


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