Se si toglie la patina ideologica – in verità piuttosto spessa – la polemica tra Matteo Renzi e il teatro Valle occupato di Roma è molto interessante perché riguarda i modelli di gestione della produzione culturale. Anzi, ben oltre: chiama in causa i modelli di produzione di valore sociale ad ampio raggio. Certo, prima bisogna scuotere dai calzari la polvere di un confronto che, a torto, tende a deviare sul ruolo che la cultura svolge nella nostra società. Argomento interessantissimo, se non lo si affronta a colpi di slogan tipo “Firenze come Disneyland del Rinascimento”. Ma in questo caso la disputa è tutta sugli assetti di governance delle strutture culturali.
Renzi, come spesso capita (e capiterà), non le manda a dire: “quando mi dicono che per salvare la cultura si deve fare come al teatro Valle a Roma, dico che ci sono altre alternative. Il Valle era nelle stesse condizioni del teatro della Pergola a Firenze, il più antico d’Europa, che ha visto l’amministrazione intervenire. Grazie a questo intervento oggi ha una propria produzione”. Sbaglia pure lui perché in questo modo polarizza il confronto tra opzioni che appaiono inconciliabili e dove in mezzo ci sta il nulla o quasi. Invece tra la Pergola e il Valle (interessante l’assonanza bucolica) ci sono tante altre iniziative, magari con meno appeal, ma che funzionano altrettanto bene. Penso ad esempio al Teatro dell’Elfo a Milano che ormai da tempo ha intrapreso la strada del modello cooperativo e, più recentemente, dell’impresa sociale. Insomma ci vorrebbe un po’ meno di narcisismo (vale per entrambe i contendenti) e molta più apertura, coltivando il valore della biodiversità dei modelli imprenditoriali e gestionali.
Il Valle, da questo punto di vista, ha il merito di aver portato alla ribalta il tema della produzione di beni pubblici in situazioni ai limiti o oltre la legalità. Un fenomeno tutt’altro che marginale e tutt’altro che nuovo, ma che in altri paesi segue percorsi di progressiva regolarizzazione, riconoscendo gli elementi di valore insisti in queste iniziative e cercando di ricondurle, in tempi non biblici, in un quadro di legalità. In Italia invece si fa finta di non vedere a causa di una burocrazia asfissiante che rallenta qualsiasi processo di rigenerazione, facendo desistere i promotori oppure instradandoli su percorsi al di fuori delle regole.
La bandiera dei beni comuni innalzata, si fa per dire, sul teatro Valle poteva rappresentare una strada inedita e soprattutto efficace per risolvere la questione, non solo di questa struttura ma di tante altre. Ma non tutto è filato liscio: il prefetto di Roma ha infatti recentemente negato l’autorizzazione alla Fondazione Teatro Valle bene comune perché “la disponibilità della sede della Fondazione in Via del Teatro Valle 21/26 e non risulta provvista di alcun titolo giuridico di proprietà o di godimento dei beni in questione”. Il soggetto gestore (la fondazione) chiede quindi la disponibilità di una struttura di cui non è proprietario e anzi chiede che la proprietà dell’immobile rimanga pubblica (in senso stretto cioè dello Stato). Il Prefetto, a fronte di questa incongruenza, ha giustamente negato l’autorizzazione.
I commons sono una cosa seria: sono modelli di governance legati a diritti di proprietà. Bisognerebbe quindi andare fino in fondo, applicando, come peraltro sollecitano gli stessi occupanti del Valle, articoli della Costituzione come il numero 43 che molto chiaramente afferma: “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale”. Insomma bisogna diventare proprietari a tutti gli effetti del bene (dietro indennizzo), così come peraltro è avvenuto nel caso dei commons più conosciututi ovvero le terre collettive.
Un caso tipico da botte piena e moglie ubriaca che rischia di allungare l’impasse del Valle e di depotenziare il ruolo dei beni comuni come “un altro modo di possedere”, riducendoli a mero slogan ideologico (“benecomunisti”) e prestando il fianco a critiche peraltro ben argomentate come nel caso di “Contro i beni comuni“.
P.S. Ultimo dettaglio: naturalmente se l’operazione di passaggio di proprietà del Valle andasse in porto, diventerebbe un precedente utile a destatalizzare altre strutture pubbliche e in altri ambiti, ad iniziare dal welfare. Nel caso sventolerebbe ancora la bandiera dei beni comuni?
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