“Ite Missa Est”

di Carlo Maria Zorzi

Domenica 23 febbraio. Renzi va a Messa, io pure. Ci va senza scorta (ma sarà seguito da lontano, no ?) e io pure (e sono seguito da lontano dopo aver segnalato via radio il mio spostamento, circa 7 minuti, a piedi, a cui ho diritto fino alle 18 ; poi obbligatoriamente « la scorta » di autista e macchina). Non gli è certamente facile conciliarla con tutti gli impegni e gli obblighi di Primo Ministro, all’indomani del giuramento e alla vigilia della fiducia del Parlamento (avrà automaticamente anche quella degli italiani ?). E non è facile neppure per me, che ho altri impegni e altre responsabilità, per quel contesto diverso –africano da Grandi Laghi, in una regione conosciuta per i decennali combattimenti- che rimette sempre in causa ogni cosa che vuoi fare. Ci pensi su : la convenienza dell’orario rispetto alla tua situazione ; se la lingua è quella che conosci oppure quella locale di cui non capisci una sola parola ; se ce la fai a resistere anche se dura tradizionalmente due ore e fa molto caldo ;  la garanzia di un minimo di sicurezza. Avere le buone ragioni per andare a Messa può talvolta non essere sufficiente ; ma crederci ti dà la spinta vincente.

Alle 11, alla parrocchia vicina 7 minuti a piedi, si canta in latino e anche qualche « parte fissa » della Messa è talvolta recitata nella lingua madre di Santa Romana Chiesa. Più latinisti in Africa che in Vaticano e dintorni ? Sembrebbe di si. Non è il primo Paese dove lo constato e mi adeguo, ma senza troppo entusiasmo. Mi spiace rinunciare ai suoni, colori, musiche e danze che fanno degli africani i maestri e gli artisti in materia. Ti imbrigliano in una preghiera multiforme, multilingue, multicolori, multigesti, multisuoni che fa salire in cielo col turbo le tragedie umane più grandi, scaricandole da cuori gonfi di dolore e di morte. La tua vita di tutti i giorni entra in chiesa e il corpo non sta fermo a guardare; battere le mani rinforza la lode che esce dalla bocca e la rende più convincente; danzare è far pregare il corpo che normalmente fatica nei lavori duri della giornata, con gestualità che sono messaggi indirizzati a Dio e ai fratelli ; portare sulla testa le offerte in natura per l’altare è la condizione quotidiana dell’offrire e del ricevere, del dare e dell’avere, del vendere e dell’acquistare ; far rimbombare i tamburi è l’espressione più alta della comunicazione ancestrale che ha trasmesso messaggi di pace e di guerra attraverso savane ingiallite e verdi colline, più veloce di internet. Ho dei ricordi bellissimi, di popoli in festa che esprimevano con tutto di se stessi, la gioia dell’incontro domenicale con Dio. Ma debbo ritornare con la mente in posti remoti, villaggi e campagne, lontani dalle piccole e grandi capitali attirate dal modernismo dell’antico, che hanno trasformato tutto in un movimento che non si muove più, in una musica silenziosa, in una lingua che non parla, perchè fondamentalmente sconosciuta. La vita di tutti i giorni non varca più la soglia e quell’ora rischia di essere solo una parentesi, come sovente nelle nostre magnifiche cattedrali buie e un pò assonnate. Fin dove sale la nostra preghiera? Mi porrò le domande di rito e forse deciderò se andare a quella delle 9, oppure altrove. Ritroverò ancora oltre la soglia, quell’Africa che illumina la fede dei colori della vita e canta la speranza senza paura di farsi sentire?

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