Gli italiani sono un popolo infelice. Se ci limitiamo agli aspetti materiali della vita quotidiana, è difficile capire il motivo di tanta insoddisfazione. Il grafico allegato è tratto da un libro che sto leggendo in queste vacanze (A. Deaton, The Great Escape) dove si analizza l’evoluzione della condizione umana in prospettiva storica e globale.
L’autore è un economista, ma aperto anche a misurazioni alternative del benessere. Ed è proprio analizzando una di queste misure alternative di benessere (la “felicità”) che emerge l’anomalia italiana. La “felicità” è ovviamente impossibile da misurare in maniera oggettiva, bisogna basarsi su indagini campionarie in cui alla fin fine sono gli intervistati stessi ad auto-definirsi “felici” o “infelici”.
Ma, anche se gli errori di misurazione possono essere notevoli, quando ci sono scostamenti significativi rispetto a quanto si registra in altri paesi (a parità di condizioni materiali) vuol dire che qualcosa c’è. E in fondo che qualcosa di vero ci sia in quel grafico lo sappiamo tutti noi. Soprattutto chi in questi giorni torna dalle ferie passate in qualche paese molto più povero del nostro e da lunedì ricomincia ad andare in metropolitana a Roma o a Milano.
Se guardiamo alle condizioni economiche, la crisi ha colpito duro ma abbiamo un reddito pro-capite elevato e una ricchezza personale (mobiliare e immobiliare) tra le più alte in Europa. Il welfare state è stato leggermente ridimensionato, ma non sono stati intaccati in maniera significativa i livelli essenziali. Il nostro sistema sanitario è eccellente (checchè se ne dica sui giornali) e ci regala una aspettativa di vita tra le più alte al mondo. Viviamo in un paese unico per le sue bellezze naturali e artistiche, per la varietà delle stagioni e dei paesaggi. La cucina è eccellente. Non è certo la mancanza di luce, come può accadere in alcuni paesi nordici, quello che ci rende (più) infelici degli altri.
Ma se non è il passato e non è il presente a rendere gli italiani infelici, che cos’è? Un italiano forse non potrà mai essere in grado di rispondere, ma io penso che sia il “futuro” ciò che ci rende più infelici degli altri. Lo vediamo nei dati sulla formazione delle nuove famiglie (che ho commentato in un precedente post su questo blog), il numero delle nascite ormai ai minimi mondiali, il record nella spesa per gioco d’azzardo e la fuga di braccia e cervelli, giovani e meno giovani. E’ proprio di questi giorni il dato terrificante dell’emigrazione dei quarantenni e dei cinquantenni.
La mortificazione della meritocrazia (nella politica, nella burocrazia, nelle aziende, nelle università) ci rende consapevoli che non abbiamo speranza nella competizione globale. Lo sanno i nostri giovani che vanno all’estero per farsi un futuro e, purtroppo, lo sanno anche i cinquantenni che il futuro avrebbero già dovuto costruirselo.
E qui Matteo tu hai una grossa responsabilità. Fai bene a puntare sul futuro, a ricordare agli italiani il loro talento e le possibilità infinite che la globalizzazione ci può riservare, a invitare i giovani a non scappare all’estero. Ma attento a fare seguire i fatti alle parole perché gli “scout” e gli altri ragazzi italiani sono svegli come lo eri tu alla loro età. Non è selezionando un ministro giovane che convinci un talento (e i suoi genitori) a rimanere in Italia, se poi questo ministro non è nemmeno laureato o il suo percorso professionale non ha nulla a che vedere con le competenze richieste da quella posizione. Le intenzioni sono buone ma, inconsapevolmente, non fai altro che evocare lo spettacolo indecoroso dei concorsi truccati per assegnare cattedre ai figli (giovani) dei baroni.
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