Torno da tre giorni di fuoco nel mezzo della piazza di Bruxelles. Nel turbinio di incontri, riunioni, lavoro, impegni ordinari si sono inevitabilmente intrecciati valutazioni e ragionamenti intorno all’esito delle elezioni italiane, sollecitato da colleghi della gran parte dei paesi europei. Tra i mille commenti e pensieri, quello più rappresentativo è forse il seguente espresso da European Voice a margine dell’incontro di mercoledi 27 febbraio del Premier Monti con il Presidente Barroso: “L’UE lotta per trovare un senso alle elezioni italiane”. In un accavallarsi di voci e di discorsi, ho passato tre giorni a cercare di raccontare, di dare ragioni e elementi di interpretazione, di difendere dalla battute ironiche o fastidiosamente compassionevoli la buona immagine di una Italia che non è solo il drammatico fallimento della sua classe politica, ma che è soprattutto la forza della sua gente, della sua cultura, della sua creatività, delle sue comunità locali e del suo tessuto produttivo e industriale che nonostante tutto continua a reggere, dei tanti uomini e donne di valore che nelle Istituzioni continuano a fare il loro dovere, dei suoi cittadini che nel voto hanno espresso una domanda chiarissima di onesta e cambiamento, di concretezza e di futuro.
Ma è durissima sfuggire i giudizi apodittici, che nascondono in fondo una duplice paura. L’una che ritiene che l’instabilità politica della terza economia della zona euro rimette a rischio la ritrovata calma dei mercati finanziari ottenuta con enorme fatica e costi sociali e politici sovraumani a partire dalla fine della scorsa estate e rappresenta ora, per tutti, la minaccia più devastante per l’intero banco delle economie europee e della tenuta del sistema politico europeo. La seconda, il timore, mascherato dietro battute inaccettabili come quelle del leader socialdemocratico tedesco o della copertina dell’Economist, circa una ondata di populismo che potrebbe contagiare rapidamente tutte le capitali europee e travolgere le già fragili democrazie e istituzioni del continente. Un timore che evoca paure di ritorno al passato, come mi hanno detto con grande chiarezza, tra gli altri, colleghi tedeschi, portoghesi o ungheresi, i quali mi raccontavano di simili movimenti elettorali nei rispettivi paesi.
Continuando in questi dialoghi frenetici, che ti bloccano a margine di ogni riunione e in ogni incrocio di corridoio o di pausa pranzo, avverti ancora con chiarezza un altro sentimento profondo e diffuso: il senso di aver ancora una volta perso l’Italia. Mi torna così in mente il sentimento potente che mi aveva investito nei commenti di tanti alla fine del 2011, che mi dicevano a chiare lettere “Finalmente, l’Italia è tornata!” Certo l’Europa è fatta dei due colossi Francia e Germania, della scettica Britannia del mercato e basta e dei nordici rigoristi (per gli altri ma talora non per loro), degli iberici euforici per uno sviluppo che si è dimostrato drogato e dei polacchi determinati e orgogliosi di un ritrovato ruolo nella storia europea e dei tanti nuovi paesi tutti alla ricerca di un proprio spazio. Ma poi tutti divisi e spesso incartati nella complessa quadra del cerchio. Bentornata Italia allora, con la sua storica capacità di tessitura, di creatività nelle mediazioni e infine di leadership, a volte nascosta altre volte evidente, nel costruire le premesse per accordi complessivi per tutti. E’ stato spesso così nella storia europea del dopoguerra, grazie alle straordinarie capacità di politici e diplomatici italiani. E’ stato di nuovo così nell’ultimo anno, dove l’azione italiana, il famoso combinato dei due “superMario” ha rappresentato il catenaccio che ha consentito di aprire nuovi margini per la Grecia prima e per la Spagna poi, di costruire le basi dell’accordo del Vertice europeo di giugno, premessa per l’azione forte e stabilizzatrice della Banca centrale europea, fino a giungere agli accordi di dicembre per l’Unione bancaria e per il meccanismo unico di vigilanza europea, che ha assunto come modello di riferimento quello della Banca d’Italia. Ritenuto il migliore e più severo …. Prima che esplodesse la vicenda Monte Paschi. E ora ti fanno capire: “senza l’Italia, chi gioca adesso questo ruolo”. Paura che esploda tutto, senso di smarrimento per aver perso quelli di cui spesso si sorride, ma che sovente trovano le soluzioni e soprattutto le strade di costruzione del consenso per adottarle. E allora, anche chi non parla una parola di italiano, conclude “Mamma mia…!”
Non sono estraneo a questi sentimenti, come la gran parte dei colleghi italiani nelle diverse istituzioni comunitarie. E mi vengono in mente altre due pensieri. L’uno espresso già alcuni mesi fa a chire lettere nel Libro di Sylvie Goulard e Mario Monti sulla democrazia europea e l’altro più recente, in un libro del leader ecologista francese Daniel Cohn-Bendit, circa la sfiducia verso i partiti come forme ancora efficaci di aggregazione politica. Pensiero condiviso dallo stesso in un colloquio a pochi giorni dalla morte con lo scrittore francese Stèphane Hessel, divenuto famoso per il suo libretto “Indignatevi!”
Il pensiero è chiaro. Le elezioni italiane in modo brutale e dagli esisti sconvolgenti, così come poco tempo fa il referendum separatista in catalogna, o ancora i già dimenticati esisti negativi e in tempi diversi, dei referendum francesi, olandesi e irlandesi sul Trattato europeo, ci dicono che anche le soluzioni tecnocratiche hanno i propri drammatici limiti, sia ai livelli nazionali che europei. La crisi dei partiti politici e la loro crescente incapacità di rappresentare riferimenti di sintesi, a destra come a sinistra, di progetto e di saldatura tra le attese dei rispettivi popoli e le riforme in grado di aprire le porte del futuro, provoca il ricorso a soluzioni tecnocratiche, che riducono e spesso annullano la partecipazione, pur nel rispetto rigoroso di tutte le procedure democratiche, parlamentari e costituzionali. Ma se queste soluzioni sono un tampone nel breve termine, nel medio e lungo termine si dimostrano non sostenibili e provocano le più diverse reazioni, dai no ai referendum citati che hanno bloccato la politica europea per anni e condotto a soluzioni contorte, alle rivolte popolari (le piazze infuocate della Grecia e della Spagna, senza dimenticare il già tramontato movimento degli Indignados che ha occupato le piazze di tutto il mondo occidentale o le piazze del mondo arabo) per giungere alla originalità di una protesta radicale che invece di esplodere decide di canalizzarsi in una forma politica inedita e manda centinaia di propri rappresentanti nelle istituzioni (il M5S in Italia e forse presto in altri paesi)
Visto dalla piazza europea, vi è certo un urgente problema di governabilità, perché la potenza degli interessi economici e delle dinamiche finanziare e della politica internazionale (basti pensare a quanto dimentichiamo ed è in corso a due passi da casa, nel Mediterraneo e nell’Africa subsahariana) non aspettano certo il nostro filosofare nei mille caminetti e talk show e urgono certezze di riferimenti e di poteri agiti con pacata determinazione e durabilità. Ma vi è anche e soprattutto un gigantesco problema democratico e di partecipazione, più volte evocato in dibattiti magistrali in seno al Parlamento europeo e anche di assemblea quali il CESE, o a margine di alcuni recenti vertici europei, ma ancora per nulla agito. Questo cantiere urge più del precedente, o almeno in modo pari, ma ahimé e con grave desolazione, non si vedono all’orizzonte soggetti o movimenti sociali che se ne facciano realmente carico. Buoni libri, buoni dibattiti, qualche parere del CESE o rigo nelle conclusioni dei Vertici, ma niente di più. E quando provi a muovere qualcosa, sei prigioniero della inamovibilità delle strutture e delle crescenti autorefenzialità, talore anche narcisistiche, dei tanti soggetti sociali e organizzati.
Infne una doppia postilla, prima di concludere questo commento, certamente un po’ confuso, ma espressivo delle incertezze e delle domande che tutti ci poniamo.
Per non parlare sempre degli altri, dove sono stati e dove sono ora i corpi intermedi, le tanto e sempre evocate forze sane della società civile? Sia nello spazio italiano che in quello europeo. Non tocca anche e forse soprattutto a questi mondi, dei quali mi sento parte e dunque direttamente interpellato, aprire un profondo e sano esame di coscienza, perché non è solo traslando qualche bravo dirigente nelle istituzioni che si contribuisce alla soluzione, come è evidente. Ma c’è un nodo educativo, societale e culturale assai più profondo che non sta certo ai partiti risolvere. E come seconda postilla: e i cattolici … dove sono finiti? Il loro ruolo di lievito e di sale è diventato scaduto o insipido? Certo è che non se ne vede un gran traccia, malgrado la presenza di qualche figura significativa, e forse anche questo deve provocare qualche serio esame di coscienza nelle nostre fila. A questo proposito non c’è che da augurarsi che lo stesso dirompente gesto del Papa provochi qualche ripensamento e sussulto anche nelle variegate e disperse autonomie dei laici cristiani, in tutti gli angoli d’Europa.
Lo penso e lo temo da molto tempo, l’Europa è da qualche anno sulla soglia di un baratro spaventoso: o svolta, oppure il discorso fatto alla consegna del Premio Nobel di Oslo non sarà che il canto del cigno di fronte al ritorno di tremendi tempi bui di divisioni e conflitti. Che Iddio ci aiuti!
Post scriptum: se poi volete davvero sollevarvi il morale, andate a leggervi, con molta attenzione ai dettagli però, le previsioni economiche d’inverno, emesse dalla CE lo scorso 22 febbraio: Http://ec.europa.eu/news/economy/130222_it.htm. Si dice, in sostanza, che forse la crescita vera la vedremo nel 2014, ma contriamente alle attese nel 2013 solo un + 0.1% per l’intera UE e meno 0,3% per la zona euro. Ma se poi si vanno a vedere le singoli situazioni. Per Belgio, Cipro, Francia, Grecia, Italia, Olanda, Portogallo, Slovenia e Spagna, prospettive buie e peggioramento di tutti i trend di crescita, occupazione e povertà. Per Austria, Bulgaria, Cekia, Danimarca, Ungheria, Lussemburgo, Polonia Romania, Slovakia e Gran Bretagna, situazioni fragili ma con ragioni di ottimismo (anche se per diversi paesi i trend sono diventati negativi con perdita di prospettive di crescita anche di un punto percentuale). Per Estonia, Finlandia, Germania, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta e Svezia, segni di speranza e di miglioramento ( ma con Svezia e Germania in inversione del trend e con Germania e Finlandia allo 0% di crescita o negativa) e tutti con crescita della disoccupazione.
Ripeto, mamma mia!!!!
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