Sotto accusa

Italia a rischio condanna per fare troppo poco contro la crisi climatica

Lanciata nel giugno del 2021, "Giudizio Universale" è stata la prima climate litigation italiana. E ieri a Roma ha vissuto quella che potrebbe essere stata l’ultima tappa prima della sentenza

di Andrea Di Turi

Lo Stato italiano potrebbe essere condannato per inadempienza contro la crisi climatica e sarebbe la prima volta in assoluto che accade. Forse già entro fine anno si saprà se l’Italia andrà ad aggiungersi ad altri Stati, fra cui l’Olanda, la Germania, la Francia, ai quali per via giudiziaria in questi anni è stato ingiunto (in alcuni casi addirittura dalla Corte Costituzionale) di fare di più per contrastare l’emergenza climatica. O, meglio, per dirla con il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, per far fronte al “collasso climatico” che è ormai sotto gli occhi di tutti.

A mettere sotto accusa l’Italia sono stati i più di 200 ricorrenti del “Giudizio Universale”: è il nome dato alla causa intentata contro lo Stato Italiano da, fra gli altri, 17 minori (ovviamente rappresentati in giudizio dai genitori), oltre una ventina di associazioni e personaggi conosciuti dal grande pubblico come il climatologo, presidente della Società Meteorologica Italiana e noto volto televisivo Luca Mercalli. Lanciata nel giugno del 2021, il Giudizio Universale è stata la prima climate litigation italiana. E ieri a Roma ha vissuto quella che potrebbe essere stata l’ultima tappa prima della sentenza. Presso il Tribunale Civile di Roma, infatti, «si è celebrata l’ultima udienza del giudizio e il giudice si è riservato di emettere la sentenza finale», dice l’avvocato Luca Saltalamacchia, del team legale che segue la causa. Che aggiunge: «Adesso abbiamo sessanta giorni di tempo per depositare la memoria finale ed altri venti giorni per depositare le memorie di replica. Dopodiché il Tribunale dovrà emettere la sentenza, che è attesa per fine anno o all’inizio del 2024». C’è anche la possibilità, che pare tuttavia meno probabile, che venga fissata una nuova udienza, nel caso in cui il Tribunale ritenesse necessario riaprire l’istruttoria.

È evidente ormai che le politiche nazionali non sono in grado di affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico. Anche le misure programmate dall’Italia nel Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (Pniec) aggiornato a fine luglio, ammesso che saranno effettivamente realizzate, mirano a conseguire l’obiettivo di una riduzione delle emissioni nel 2030 di appena il 36%

Lucie Greyl, attivista di A Sud Onlus

Ma di cosa è accusato esattamente lo Stato italiano in relazione alla crisi climatica e cosa chiedono nello specifico i ricorrenti? «Questa – risponde Saltalamacchia – non è una causa a contenuto risarcitorio. Mira invece ad ottenere la condanna dello Stato a tagliare le emissioni ad un livello tale che sia compatibile con gli sforzi che esso dovrebbe fare per contribuire in modo equo a centrare l’obiettivo stabilito dall’Accordo di Parigi». Nello specifico si chiedono due cose: primo, che il Tribunale si pronunci dichiarando che lo Stato italiano è responsabile di inadempienza nel contrasto all’emergenza climatica. Secondo, che il Tribunale ingiunga allo Stato di fissare obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra più ambiziosi di quelli attuali, vale a dire nell’ordine del 92% entro il 2030 (rispetto ai livelli del 1990), come indicato dalle analisi scientifiche utilizzate nell’impianto accusatorio. Solo così, secondo i ricorrenti, lo Stato italiano farebbe la sua parte nel contribuire alla stabilità climatica. E nel garantire contestualmente la tutela effettiva dei diritti umani delle presenti e delle future generazioni, in conformità con il dovere costituzionale di solidarietà e con quello internazionale di equità tra gli Stati.


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La questione dell’equità è fondamentale, quando si parla del contrasto alla crisi climatica nell’unica prospettiva in cui ha senso farlo, cioè globale. Il principio è che i Paesi a più antica e diffusa industrializzazione, e naturalmente più ricchi, hanno più responsabilità storiche nelle emissioni di gas serra rispetto agli altri, per cui devono fare di più, cioè “tagliare” di più le emissioni. Anche perché già oggi – massima ingiustizia – i Paesi e le aree del globo, si pensi all’Africa, che hanno minori responsabilità nell’aver causato la crisi climatica, ne stanno invece subendo gli impatti più devastanti. Al riguardo Lucie Greyl, attivista di A Sud Onlus – l’associazione capofila dell’iniziativa legale – e portavoce della campagna Giudizio Universale che ha accompagnato la causa lungo tutto l’iter (anche ieri a Roma, in occasione dell’udienza, la campagna ha promosso iniziative di sensibilizzazione e di discussione sull’andamento della causa), dichiara come sia «evidente ormai che le politiche nazionali non sono in grado di affrontare le sfide poste dal cambiamento climatico. Anche le misure programmate dall’Italia nel Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) aggiornato a fine luglio, ammesso che saranno effettivamente realizzate, mirano a conseguire l’obiettivo di una riduzione delle emissioni nel 2030 di appena il 36%. Lo Stato non ha considerato le evidenze scientifiche, non sta rispettando gli accordi internazionali sul clima e continua a intrecciare rapporti con l’industria del fossile».

Dalla parte dell’accusato, cioè dello Stato italiano, che strategia o comunque che posizione è stata adottata finora? «Fondamentalmente – risponde ancora Saltalamacchia – lo Stato italiano ritiene che un giudice civile non possa condannarlo a tagliare le emissioni. È consapevole che l’emergenza climatica è un problema, ma ritiene che la condotta sia insindacabile, anche se la stessa contribuisce alla minaccia al godimento dei diritti fondamentali».

Al di là di cosa stabilirà la sentenza, il Giudizio Universale ha creato un precedente. Ha fatto e continua a far rumore. Dimostra che la società civile ha disposizione uno strumento potente per contrastare l’azione insufficiente degli Stati contro la crisi climatica. «Questa è una causa strategica – conclude Saltalamacchia – la cui importanza va ben al di là delle richieste formulate al giudice. Costituisce un momento di riflessione collettiva. E costringe la controparte, in questo caso lo Stato ma in altri contenziosi potrebbe essere un’impresa, a ragionare su come la propria attività impatta sui diritti fondamentali dei cittadini».


Nella foto: Problemi e disagi legati al maltempo in Romagna – fiume Sillaro in piena e allagamenti in città a Faenza. Michele Nucci/LaPresse

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