Adozioni e affidi

Jacqueline, la maestra che insegna ad amare

di Luigi Alfonso

La storia di un'insegnante trapiantata in Sardegna ormai da 43 anni ma ancora alla ricerca delle sue origini. Adottata dal Cile all'età di sette anni, le manca il tassello del suo primo periodo di vita per raggiungere finalmente la serenità e la felicità. Tra maltrattamenti, fughe e incomprensioni, la sua rinascita come donna, madre e insegnante

«A 43 anni mi sento una donna quasi completa, non ancora del tutto felice ma sulla buona strada. Mi manca ancora un pezzo del puzzle, che riguarda i primi sette anni della mia vita. Un tassello importante che si riferisce al periodo in cui vivevo nel mio Cile ». Jacqueline Orgiano lasciò Santiago del Cile 36 anni fa e fu adottata da una famiglia sarda . Era una bimba vivace e solare. « Felicissima di trovare una famiglia che mi volesse », spiega lei. « Desideravo assaporare la felicità di essere finalmente figlia di qualcuno ,dunque al mio arrivo in Italia mi concentrai subito nell’assecondare tutte le richieste dei miei genitori adottivi. Mia madre era una sarta, timida e conservatrice, e questo ha influito moltissimo nell’educazione che ho ricevuto; mio padre un militare della Guardia di finanza, una persona molto gioviale. Dei miei genitori naturali ricordo poco o niente. Mia madre aveva una quindicina d’anni quando, in seguito a un rapporto sessuale non voluto, rimase incinta di me. Credo che si chiamasse Maria, ricordo a malapena i suoi capelli neri e lunghi. La violenza era di casa, da noi : ho assistito a parecchie scene sgradevoli, in famiglia. A un certo punto sono andata a vivere dai miei nonni, a Rancagua , un paese a un’ottantina di chilometri dalla capitale.Pure mio nonno era violento, mi picchiava senza alcun motivo , spegneva le sue sigarette sulle mie natiche. Appena ho potuto, dopo vari tentativi, ho squarciato la zanzariera e sono scappata . Un gruppo di ragazzine mi ha accompagnato alla stazione ferroviaria di Santiago. Lì è iniziato tutto l’iter per poter essere affidata a un orfanotrofio».

« Ebbi la fortuna di finire in una comunità per minori gestita dalle Suore della Redenzione, dove Suor Ivonne mi accolse in una maniera straordinaria, come una vera mamma. Un’esperienza che mi è rimasta nel cuore, sono ancora in contatto con quella suora. Fece carte false per farmi adottare da una famiglia italiana. Letteralmente, perché ho saputo che l’iter di adozione non fu del tutto regolare: la ricerca sulle mie radici era stata molto superficiale».

«Avere due genitori tutti miei, che mi coccolavano, mi aveva fatto illudere di aver svoltato del tutto», prosegue. «Ero felicissima. Purtroppo i miei tratti somatici tradivano le mie origini, alcuni compagni di scuola mi prendevano in giro e provocavano certe mie reazioni violente. Ero diventata aggressiva, anche nei confronti dei miei insegnanti, e questo alla lunga creò problemi in seno alla mia nuova famiglia. Dapprima mi rincuorarono, poi videro che non sapevano gestire la situazione e mi sottoposero a diversi percorsi con gli psicologi. Questo mi disorientò ancora di più. Sino all’adolescenza mostrai un carattere ribelle, così il Tribunale mi mandò in un istituto correttivo a Oristano, dove c’erano ragazze tossicodipendenti, o figlie di prostitute oppure che avevano commesso piccoli reati. Ognuna aveva alle spalle un vissuto difficile, non era il contesto migliore per rimettermi in carreggiata . Quell’anno mi impegnai a fondo per “fare da brava”, volevo tornare a casa: in fondo, per me erano semplicemente mamma e papà, non i genitori adottivi , perciò ci tenevo davvero a tornare. Ma una volta da loro, mi accorsi subito che qualcosa si era spezzato: continuavano a farmi pesare la mia adozione . Io non avevo bisogno che me lo ripetessero, lo sapevo da me. E non mi aiutavano a trovare una risposta alla solita domanda: perché ero stata adottata? Insomma, la situazione non migliorò e, d’accordo con il Tribunale, deciso di affidarmi a un istituto per adolescenti problematici delle Suore del Crocifisso, vicino a Roma. A Rocca di Papa ho vissuto dall’età di 14 anni ai 21. In verità, al compimento del diciottesimo avrei potuto andarmene via, ma decisi di restare perché la rabbia era ancora tanta . Purtroppo, anche quella si rivelò una realtà complessa, difficile, non adatta a me: c’erano ragazze aggressive, rissose, alcune ci minacciavano con il coltello. Ero arrivata al punto di picchiare una suora, non avevo più rispetto per le figure adulte.Studiavo all’interno della comunità, non potevo lasciare la struttura se non con un’autorizzazione speciale. Zero socializzazione all’esterno. In tutto quel periodo, cioè per sette lunghi anni, avrò visto i miei genitori in tutto tre o quattro volte, e ogni volta erano discussioni accese. Io non andavo mai a trovarli a casa perché ero troppo arrabbiata con loro: mi sentivo abbandonata per la seconda volta ».

Tornata a casa in Sardegna, iniziò un nuovo incubo. « Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Avevo perso i contatti, non sapevo rapportarmi con la gente: o ero aggressiva nelle risposte, oppure stavo sulla difensiva, in disparte. Inoltre, nel tempo è emerso un aspetto che ancora oggi trovo assurdo: mio padre era una persona affettuosa, e questo a mia madre non piaceva. Raggiunti i 21 anni ero ormai una donna, sotto tutti i profili, e mia mamma provava gelosia nei miei confronti. Lì iniziò ad allontanarmi da lui, in tutti i modi. Non sopportava l’idea di vedermi vicino a lui, che aveva mantenuto un rapporto amorevole nei miei confronti, nonostante tutto. Mia madre mostrava già una forte depressione, piangeva spesso e si lamentava di non aver mai avuto un figlio naturalmente. Io cercavo di non farla soffrire perché sentivo i sensi di colpa, e questo aspetto si è replicato in tutti i campi della mia vita: nel lavoro, nelle amicizie, nei rapporti affettivi. Dovevo sempre essere all’altezza. Così decisi di non proseguire gli studi all’università, cercai un lavoro per essere indipendente e poter andare a vivere per conto mio».

A quel punto per Jacqueline cominciò un’altra vita. L’ennesima. « Conobbi quello che sarebbe diventato mio marito. Un brav’uomo, ma con un vissuto terribile e un’infanzia devastata dalla morte violenta della madre. Ci siamo sopportati per undici anni, dal matrimonio sono nati due figli : la ragazza oggi ha 19 anni e lavora in Germania, è felice ma sente molto la mia mancanza; il ragazzo ha 16 anni, vive un po’ con me e un po’ col papà ma ha un rapporto conflittuale, gli manca una vera figura paterna. Quando mi lasciai con mio marito, presi i bambini e, sotto una pioggia torrenziale, mi recai dai miei genitori. Era il 2007. Mio padre non aprì neppure la porta di casa. Al citofono mi disse: “Così come sei arrivata, puoi andartene”.Ci restai malissimo, era l’ennesimo rifiuto. Mi accorsi che si era rotto qualcosa per sempre. Mia madre aveva ottenuto ciò che voleva, infatti il ​​rapporto con lui non fu più lo stesso. Mio padre è morto a causa di un tumore, nel 2018. Mi è crollato il mondo addosso, perché lui nonostante tutto era l’unico legame che sentivo con quella che io chiamavo famiglia, anche se ormai non ci vedevamo più come un tempo. Mi aveva persino tenuta all’oscuro della sua malattia ».

«Così, tutto ad un tratto, mi sono trovata a gestire una madre malata, la casa di famiglia, il suo conto corrente bancario. Solo a quel punto, mia madre mi ha confessato di aver convinto mio padre a lasciarmi fuori dal testamento, a vantaggio dei miei figli. Avrei potuto ricorrere in tribunale, ma non l’ho fatto: ho rispettato le sue ultime volontà. Io vado avanti con le mie forze. Mia madre, intanto, sta sempre peggio».

Oggi Jacqueline insegna in una scuola primaria di Buddusò , a 200 km di distanza da Cagliari, dove ha casa. Dice di essere gratificata dal rapporto con gli alunni , appagata per certi versi ma non del tutto felice. «Ho un nuovo compagno, sto cercando di rifarmi una vita, ma manca ancora un tassello per ricomporre il mio passato, cioè i sette anni vissuti nella mia terra d’origine . Sono sarda d’adozione ma mi sento sempre cilena, è un legame che non si è mai spezzato. Ecco perché, tre anni fa, mi sono recata in Cile alla ricerca delle mie origini. Speravo di rintracciare la mia famiglia naturale, ma non ci sono riuscita. Quando sono andata a Rancagua, ho rivisto dopo oltre trent’anni Suor Ivonne: sono stati momenti bellissimi, sembrava che non ci vedessimo dal giorno prima. Mi ha abbracciata con tanto amore. E i ricordi hanno iniziato a riaffiorare, tra le lacrime: un’emozione fortissima . Solo in quel momento ho scoperto quali fossero i miei cognomi, Rosales e Fuentes . Era troppo poco, ovviamente, per risalire ai miei genitori naturali, infatti mi sono rivolta alla polizia locale, ma non c’è stato niente da fare. Era passato troppo tempo, e molti documenti all’anagrafe erano andati smarriti o distrutti. Non esisteva neppure il mio certificato di nascita.Al più presto cercherò di fare la prova del Dna e, tramite l’ambasciata cilena in Italia, vorrei arrivare a chiudere il cerchio e capire qual è stata la necessità di lasciarmi andare in un altro Paese. Sarebbe bastato avere un pezzo di pane condiviso e l’affetto dei miei genitori, per essere felice. Da ciò che mi hanno raccontato le suore, da bambina ero solare, allegra, piena di fantasia. Arrivata in Italia mi sono un po’ spenta. Quei sette anni che mancano, hanno condizionato tutta la mia vita. Se avessi avuto tutti i pezzi del puzzle, forse avrei fatto scelte diverse. Avrei accettato meglio l’adozione, non avrei optato per un continuo cercare le mie origini.Ero arrabbiata, però mi chiedevo sempre: chissà com’era il viso di mia mamma, chissà qual era il suono della sua voce. Non so neppure se avessi fratelli o sorelle. Ho saputo che mio padre era un militare dell’Aviazione, ma niente di più. Qualche tempo fa, sono stata contattata via mail da un ragazzo che si è spacciato per mio fratello: all’inizio ero incuriosita, poi ha prevalso la paura di ciò che ho potuto scoprire e non ho più risposto alle sue mail».

«Ho imparato ad amare e accettare mia madre, così com’è, con le sue fragilità. Non ha un istinto materno ma ha cercato di fare tutto il possibile per me. Con i miei due figli ho cercato di non ripetere i loro errori, anche se ogni genitore ne commette. Purtroppo, hanno assistito a scene che avrei voluto risparmiare loro: soprattutto i litigi con il padre, a volte molto forti. La separazione è stata una sorta di rinascita, perché è tornata la serenità in casa. Ho cercato di rieducarmi come madre, ogni giorno mi mettevo in discussione e cercavo di fare del mio meglio. Oggi mi adorano, e io adoro loro. Sanno che ci sono e ci sarò. Lavorare a Buddusò è un grande sacrificio, perché mi tiene lontana da mio figlio, ma la distanza mi ha aiutata a capire chi sono. È un’esperienza che mi sta arricchendo molto, in questo paese c’è ancora il senso dei valori, la figura dell’insegnante è tenuta in grande considerazione ei bambini mi regalano tante soddisfazioni. Gestire mia madre a distanza è molto difficile, anche se ora ha una badante a tempo pieno».

Jacqueline dice di aver ricevuto grandi benefici dal lavoro che sta svolgendo con uno psicoterapeuta. «Ho sempre considerato l’adozione come un gesto d’amore. Già, ma un gesto d’amore per chi? Per i genitori o per il figlio adottato? Spesso, come è accaduto a mia madre, si cerca di riempire un vuoto causato dall’incapacità di avere un figlio in modo naturale. Non lo accetti e ti crei delle aspettative nei confronti del bimbo che vai ad adottare. La frustrazione può essere enorme, devastante. Mi sono sentita in colpa per non averla resa felice. Solo ora, da adulta, ho capito che non era colpa mia. Oggi vorrei che mio padre fosse qui, che potesse vedere che cosa sto facendo a scuola con quei bambini, che cosa ho fatto con i miei figli. A tutti loro ho insegnato e insegno valori importanti, come la gentilezza, l’amore e il rispetto. Vorrei che mi dicesse: sono fiera di te. Non ha mai avuto il tempo di farlo». Jacqueline tace di colpo, le lacrime le rigano il viso. Abbassa la testa, con pudore. Poi riprende: «Lui ha conosciuto una parte di me che non gli piaceva, ed è morto con la convinzione che avrei fatto il mio dovere nei confronti di mia mamma. Questa è una cosa che mi lacera dentro. Ero innamorata di mio padre, era il mio modello. Il fatto che mia mamma me ne abbia privato, mi ha fatto soffrire per anni. Oggi ho superato la rabbia, il rancore, le incomprensioni. Ho perdonato. Ecco perché ritengo importantissimo che ci siano delle figure specializzate che creino un ponte, una mediazione tra i genitori adottivi e il figlio. Un bambino, in fondo, è sempre e solo alla ricerca di amore. Ma a volte i genitori adottivi cadono nell’errore di voler dimostrare tanto, anche troppo, e soffocano quel bambino. I miei, per esempio, si prodigavano per insegnarmi l’italiano ma hanno creato un solco profondo con il mio passato, con le mie radici, dalla lingua spagnola alla storia del mio Paese d’origine. Se insieme fossimo riusciti a lavorare su quei dettagli, forse avrei superato certi limiti. Ora mi manca quel pezzetto per chiudere il cerchio. Ma essere madre mi ha reso felice, ed essere un’insegnante mi appaga in maniera straordinaria. Mi sto ricostruendo dando amore alle persone che mi sono vicine».

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