È necessario che l’adozione interrompa i legami con la famiglia di origine? È sempre questa la scelta più corretta nell’interesse del minore oppure – valutando di caso in caso – si può ammettere che il mantenimento di relazioni significative con un familiare è un fattore positivo per la serenità del minore adottato? È possibile quindi prevedere anche formalmente che i legami affettivi con qualche componente della famiglia d’origine non vengano interrotti del tutto? È attorno a queste domande che si muove la riflessione sull’adozione aperta, ossia sulla possibilità per il minore adottato di mantenere i contatti con alcuni componenti della famiglia di origine.
In questi giorni se ne torna a parlare perché il 5 luglio la Corte Costituzionale discuterà l’ordinanza interlocutoria 230/2023 con cui la Corte di Cassazione a gennaio 2023 ha chiesto chiarimenti circa la legittimità della legge sulle adozioni proprio nel passaggio in cui si prevede che con l’adozione legittimante vengano sempre recisi i rapporti dell’adottato con la sua famiglia di origine. Se la Corte dichiarasse l’incostituzionalità dell’articolo 27 della legge 184/1983, invece di prevedere a priori la cessazione dei rapporti, nelle adozioni si potrebbe in futuro prevedere una valutazione caso per caso, in base al superiore interesse del minore. È un’ipotesi che fa discutere e che cambia alla radice la nostra attuale legge.
Per alcuni si tratta di riconoscere l’importanza per l’adottato di mantenere rapporti di fatto con alcuni membri della famiglia di origine, nella direzione indicata anche dalla CEDU e tracciata dal crescente riconoscimento del diritto dell’adottato adulto di avere accesso alle informazioni sulla sua origine. Per altri invece è un attacco al cuore dell’adozione: la professoressa Joëlle Long dell’Università di Torino, per esempio, nell’articolo “In morte dell’adozione?” pubblicato sulla rivista specializzata Familia, scrive di «rigurgiti adultocentrici» e della mai sopita rivalutazione del legame di sangue, con il tentantivo di «sovvertire il rapporto tra regola ed eccezione, configurando l’adozione in casi particolari ex art 44 lettera d della legge 184/1983 come scelta preferenziale rispetto alla cesura dei rapporti giuridici e di fatto conseguenti all’adozione piena». VITA sta raccogliendo riflessioni e contributi sul tema (vedi le news nelle correlate).
Ne parliamo con Marta Casonato, psicologa, dottoressa di ricerca, esperta di formazione per l’adozione e di accompagnamento nel post. Insegna presso l’Istituto Universitario Salesiano Torino ed è consulente, fra gli altri, al Centro di Terapia dell’Adolescenza-CTA di Milano, dove è responsabile del servizio FARO per il sostegno e l’accompagnamento alla ricerca delle origini. È fra i maggiori esperti in Italia di adozione aperta.
1. Qual è esattamente la questione che affronterà la Corte Costituzionale?
Non sono una giurista, ma in termini di significato il quesito posto dalla Corte di Cassazione chiede se sia costituzionalmente corretto che con l’adozione legittimante cessino sempre e definitivamente i rapporti dell’adottato con la famiglia di origine (estesa ai parenti entro il quarto grado), escludendo invece la possibilità di fare una valutazione in concreto, caso per caso, del preminente interesse del minore a non reciderli, secondo modalità da stabilire.
2. Oggi la legge prevede quindi che con l’adozione vengano sempre interrotti i rapporti con la famiglia di origine, senza eccezioni?
L’adozione legittimante prevede l’interruzione di tutti i rapporti, giuridici e non. Secondo la legge il minore adottato può mantenere relazioni con qualche componente della sua famiglia di origine solo nei casi delle adozioni particolari, secondo l’articolo 44 della legge 184/1983. Uno studio in corso sui nuovi possibili scenari dell’adozione, coordinato da Francesco Vadilonga per il CISMAI, documenta però come ormai il numero delle adozioni legittimanti e quello delle adozioni in casi particolari sia del tutto confrontabile: nel 2021 in Italia ci sono state 866 adozioni legittimanti, 717 adozioni in casi particolari e 680 richieste di ingresso di minori con adozione internazionale. La possibilità di cui oggi si parla è che anche l’adozione legittimante possa andare a recidere i rapporti tra i genitori e i figli dichiarati adottabili solo come extrema ratio, qualora non si ravvisi alcun interesse per il minore di conservare una relazione con i parenti biologici. Se invece il preminente interesse del minore lo richiede, si dovrà verificare la possibilità e concreta percorribilità di un modello di adozione compatibile con la non recisione dei legami con il genitore biologico o con un altro componente della famiglia. È una strada dettata dall’osservazione dei bisogni del minore, dalla attuale realtà di fatto delle adozioni e anche dall’allineamento con diverse sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo-CEDU.
3. Che cos’è esattamente l’adozione aperta?
È un’adozione in cui vengono recisi i rapporti giuridici, ma possono permanere quelli non giuridici. Potremmo dire che oggi assistiamo a due forme di adozione aperta. Una che nasce ab origine come adozione aperta, con una sentenza che prevede il mantenimento dei contatti: sentenze di questo tipo sono state rare negli anni, anche se mi risulta che le prime risalgono già agli anni Novanta. Altra ipotesi invece è quella di un’adozione formalmente legittimante – che prevede quindi l’interruzione dei rapporti con la famiglia di origine – ma che a un certo punto ha visto avviarsi (o mantenersi) in maniera non prevista e “informale” dei contatti, diventando così una adozione aperta di fatto, anche se nulla di tutto ciò era previsto nel decreto. Pensiamo ai casi di ricerca delle origini “fai da te”, frequentissimi ormai, in cui l’adottato cerca i suoi genitori biologici o viene rintracciato da qualcuno della sua famiglia: diventano adozioni aperte di fatto, in cui la famiglia adottiva però deve attrezzarsi da sola per governare le relazioni con la famiglia di origine. Altre situazioni sono quelle di fratelli per i quali vengono definiti collocamenti diversi: anche qui spesso si ha il mantenimento del legame.
Se mettiamo insieme tutti i casi di cui abbiamo accennato, in particolare di adozione aperta “di fatto”, si capisce che l’adozione aperta non è affatto residuale. È qualcosa che la legge 184 non prevede, ma che nella realtà ormai c’è. Si tratta di dare una risposta a situazioni già esistenti
4. Quanto sono frequenti le situazioni di adozione aperta “di fatto”?
Da ricercatrice vado sempre cauta con i numeri, ma se mettiamo insieme tutti i casi di cui abbiamo accennato, si capisce che l’adozione aperta non è affatto residuale. Ormai quelle “di fatto” sono frequentissime, anche nell’adozione internazionale. Il fatto stesso che oggi l’età media dell’adottato (sia nella nazionale sia nell’internazionale) sia più alta implica che un bambino spesso ricordi il proprio cognome e talvolta anche nomi dei suoi genitori biologici: si tratta di qualcosa che la 184 non prevede – la legge dice infatti che non deve essere data alcuna informazione di questo tipo sul passato – ma la realtà ormai è questa. Mi risulta che il Tribunale per i Minorenni di Milano, per esempio, in fase istruttoria chieda esplicitamente alle coppie di esporsi rispetto alla possibilità di un’adozione aperta. Si tratta di dare una risposta a situazioni già esistenti.
5. Anni fa il Francesco Occhiogrosso, storico presidente del Tribunale per i minorenni di Bari, scomparso a fine maggio, introdusse il concetto e la prassi della adozione mite: che differenza c’è?
Anche se sarebbe meglio approfondire queste differenze con chi opera in campo giuridico, possiamo dire che l’adozione mite si inserisce nell’ambito dell’adozione in casi particolari prevista dall’art 44 lettera d della legge 184/1983: prevede che si conservino i legami giuridici con la propria famiglia di nascita a cui si aggiungano quelli con la famiglia adottiva. È un’adozione che crea una doppia appartenenza, anche sul piano giuridico. Il minore, in questo caso, ha il doppio cognome. Tecnicamente richiederebbe il consenso all’adozione da parte dei genitori di nascita. L’adozione aperta invece – ripeto – è una adozione legittimante a tutti gli effetti, in cui i rapporti giuridici cessano mentre possono permanere quelli affettivi e informativi. A questo proposito nella mia esperienza ho osservato che molti operatori e famiglie tendo ad immaginarsi l’adozione aperta come una sorta di eterna prosecuzione dei contatti con il genitore biologico, in maniera molto simile ai contatti che avvengono in luogo neutro, figurandosi un bimbo che incontrerà periodicamente di persona la propria madre biologica. Ma questo non è il caso dell’adozione aperta, per due importanti motivi: il primo ha a che fare con l’obiettivo, che è differente rispetto all’affidamento, il secondo con le modalità, perché l’apertura strutturale dell’adozione può avere tantissime forme e sfumature, molto più leggere del contatto diretto.
Nella mia esperienza ho osservato che molti operatori e famiglie tendo ad immaginarsi l’adozione aperta come una sorta di eterna prosecuzione dei contatti con il genitore biologico, in maniera molto simile ai contatti che avvengono in luogo neutro, figurandosi un bimbo che incontrerà periodicamente di persona la propria madre biologica. Ma questo non è il caso dell’adozione aperta. L’apertura strutturale dell’adozione può avere tantissime forme e sfumature, molto più leggere del contatto diretto
6. Un’obiezione all’adozione aperta è che se un minore è dichiarato adottabile significa che nella sua famiglia non ha avuto garantite quella protezione e sicurezza di cui ha bisogno per crescere sereno. Come si può pensare di mantenere legami con genitori maltrattanti o abusanti, per esempio? Il tema del diritto del minore alla continuità degli affetti non rischia di essere in realtà una “maschera” per un presunto e inesistente diritto degli adulti a prolungare la loro intrusione nella vita del minore?
L‘adozione aperta deve rispondere ad un bisogno dei bambini, non degli adulti. Questo è chiaro. Sarebbe gravissimo pensare che possa essere prevista per rispondere ad una richiesta della famiglia biologica e ovviamente non va assolutamente contemplata se c’è un genitore abusante o maltrattante. Nell’interesse del minore non si mantengono rapporti con parenti violenti o pericolosi! I rapporti sono concepibili solo nei casi di trascuratezza continuativa di cure, del cosiddetto “semiabbandono permanente”. L’adozione aperta ha senso in quanto permette di mantenere un legame già esistente, stabile e in qualche modo funzionale alla crescita del minore, perché coinvolge persone che hanno a cuore il minore e il suo benessere, anche se non sono sufficientemente in grado di prendersi cura di lui. Nel Regno Unito distinguono tra care for e care about e parlano di genitori di origine unable to care for them, but care about them: non sono in grado di prendersi cura dei propri figli, ma li hanno a cuore. Molto spesso tra l’altro il parente con cui il minore potrebbe mantenere un legame – anche indiretto o mediato, lo ripeto – non è un genitore ma un nonno, la zia, il fratellastro, insomma un parente che nella storia del minore ha avuto un ruolo particolare. Per essere chiari, stento ad immaginare l’utilità di un’adozione aperta nel caso di un bimbo di due anni che non ha mai visto la sua madre biologica e che si troverà per decreto ad incontrarla una volta al mese. Ha senso invece mantenere i legami là dove essi esistono e dove recidendoli – come farebbe l’adozione legittimante – si va a creare uno strappo che è negativo per il minore. Talvolta questo accade e in questi casi credo sia nostro dovere contemplare una forma che permetta al minore di mantenere un legame, evitandogli una frattura, uno strappo ulteriore.
7. Culturalmente la necessità di guardare all’adozione non come a una nuova nascita è acquisita, tutti riconoscono la necessità di tenere uniti passato e presente. Cosa manca ancora?
Siamo passati negli anni da un modello in cui pensavamo che per il bene del minore fosse meglio fare tabula rasa della sua esperienza precedente, ad uno che riconosce la crucialità del recupero della propria storia per il suo benessere. Mi sembra che oggi siamo chiamati a fare un passo in più: riconoscere che non soltanto quella storia non va cancellata nei ricordi, ma che talvolta può essere tenuta viva, in qualche forma, nel presente. Questo consentirebbe a noi e soprattutto ai minori di limitare lo strappo che l’adozione crea, aprendoci a trarre tutto il buono che l’adozione può dare – ovvero quel senso di stabilità e di appartenenza di cui il minore ha assoluto bisogno – ma garantendo contemporaneamente anche il mantenimento di legami originari significativi. Se non ci apriamo a questa possibilità rischiamo da un lato di non tenere conto di quanto gli adottati divenuti adulti e la ricerca ci hanno insegnato in merito alla continuità degli affetti e all’integrazione psichica, e dall’altro di precludere ad alcuni minori la possibilità di crescere in una famiglia adottiva. Perché purtroppo accade che, quando si capisce che lo strappo sarebbe negativo, al fine di evitarlo spesso si arriva a non procedere all’adozione, prolungando la situazione “di limbo” per il minore.
8. Perché l’adozione aperta potrebbe essere una soluzione positiva per i tanti casi di affido sine die?
L’affido sine die è di fatto la presa d’atto di una situazione di “semiabbandono permanente” per il minore, dove non si decide per la decadenza della responsabilità genitoriale ma allo stesso tempo si sa che il genitore non è in grado di esercitarla. Questo però diventa un ostacolo alla possibilità per il minore di iniziare una nuova vita, perché nell’affido sine die il minore è indubitabilmente accolto, ma dal punto di vista giuridico non appartiene a quella famiglia e così non si sente sufficientemente legittimato nel nuovo contesto, si chiede sempre “qui io sto bene ma porto un altro cognome”, “cosa succederà di me a 18 anni?”. Ci sono studi interessanti che confrontano esiti di collocamenti in affido a lungo termine e adottivi, con esiti evolutivi migliori in questo secondo caso. Sono proprio le situazioni che portano agli affidi sine die, quelle in cui si constata il semiabbandono permanente, la “trascuratezza continuativa di cure” oppure “l’omissione permanente di cure”, quelli in cui ha senso contemplare l’adozione aperta.
L’adozione aperta ha senso in quanto permette di mantenere un legame già esistente, stabile e in qualche modo funzionale alla crescita del minore, perché coinvolge persone che hanno a cuore il minore e il suo benessere, anche se non sono sufficientemente in grado di prendersi cura di lui.
9. Che riflessioni possiamo fare partendo dall’esperienza di Paesi che già prevedono l’adozione aperta?
Il riferimento più prossimo a noi è quello del Regno Unito. Negli Stati Uniti infatti le adozioni aperte sono quasi tutte “adozioni in pancia”, qualcosa che culturalmente non ci appartiene. Nel Regno Unito invece il 70% delle adozioni nazionali, quelle che derivano da allontanamenti, nascono come adozioni aperte e spessissimo le relazioni non sono vis a vis – ma per esempio avvengono attraverso lettere – e sono mediate da operatori. Dalla letteratura scientifica si capiscono due cose. La prima è che l’adozione aperta funziona bene se rispetta il bisogno del bambino, come dicevamo prima. L’altra cosa evidente è che l’adozione aperta diventa una occasione per migliorare e potenziare l’apertura comunicativa in famiglia. La storia del bambino prima del collocamento nella famiglia adottiva spesso è considerata come “l’elefante nella stanza”, una presenza ingombrante ma taciuta: l’adozione aperta invece obbliga ad affrontare le cose, a parlarne. Il fatto che ci siano informazioni, che ogni tanto arrivi un biglietto di auguri o che si debba scrivere una lettera sono tutte sollecitazioni a parlare esplicitamente dell’adozione e, più in generale, a sostenere il minore nell’integrazione del suo passato e del suo presente. E sappiamo che l’apertura comunicativa è uno degli indici più rilevanti del benessere della famiglia. Dieci anni fa dalla ricerca emergeva che chi sta in collocamento aperto sta meglio: oggi possiamo dire che questo accade perché l’adozione aperta impone di lavorare molto sulla comunicazione.
10. Quali sono gli aspetti positivi dell’adozione aperta?
Credo sia evidente a tutti noi quanto sia doloroso creare uno strappo con persone a cui siamo stati legati, anche se queste persone non sono state perfette per noi. E d’altro canto quanto sia nutriente per la propria crescita sentire di restare nella mente e nel cuore di chi si è preso cura di noi. Ricevere una lettera di auguri e sapere che qualcuno li pensa può essere molto importante per i minori in alcune fasi della crescita. Un contatto, anche una tantum, può essere rassicurante perché li informa su come sta l’altro e perché informa l’altro del fatto che loro stanno bene e stanno crescendo: penso a tutti quei minori preoccupati del destino dei propri fratelli rimasti nel nucleo di origine o dei nonni che si erano presi cura di loro, che covano dubbi e sensi di colpa per lunghi anni. Questo dal punto di vista psicologico. In un’adozione aperta inoltre il minore ha ancora più chiari i motivi del suo collocamento, è più a contatto con i limiti del suo nucleo di origine e questo diviene fondamentale nel tempo, specie in adolescenza, perché lo aiuta a spiegarsi a pieno come mai è andato incontro al destino dell’adozione, senza rischiare di idealizzare i genitori biologici. Preziosissimo è inoltre il fatto che qui ci sono o possono essere recuperate più informazioni, anche rispetto al quadro di salute. Tutto questo fa sì che non ci sia quasi mai la ricerca delle origini all’interno di un’adozione aperta, perché non essendoci stato un taglio netto non c’è il bisogno di recuperare informazioni sulla propria storia. Un altro aspetto da non sottovalutare è che, posti di fronte ad una soluzione che non taglia definitivamente tutti i ponti, i genitori di nascita sono meno contrari all’adozione, ci sono meno ricorsi.
Siamo passati negli anni da un modello in cui pensavamo che per il bene del minore fosse meglio fare tabula rasa della sua esperienza precedente, ad uno che riconosce la crucialità del recupero della propria storia. Oggi siamo chiamati a fare un passo in più: riconoscere che quella storia non solo non va cancellata nei ricordi, ma che talvolta può essere tenuta viva nel presente. Questo consentirebbe trarre tutto il buono che l’adozione può dare – ovvero quel senso di stabilità e di appartenenza di cui il minore ha assoluto bisogno – ma limitando lo strappo
11. E quali le criticità?
Gli aspetti critici – o forse potremmo dire le grandi sfide – riguardano la gestione del dolore. Nell’adozione aperta minori e genitori adottivi sono maggiormente esposti a storie di dolore, ad esempio situazioni di marginalità, fragilità, problemi grossi di salute. Serve una buona tenuta e una capacità di tenere la giusta distanza e di saperlo “digerire”. C’è poi la sfida di tenere insieme i due nuclei familiari, ma questo accade per tutte le adozioni perché a parte i bambini adottati molto piccoli tutti gli altri comunque il nucleo di origine lo hanno comunque nella loro mente, solo che qui bisogna sapere gestire i confini e le comunicazioni. In generale direi che la grossa sfida dell’adozione aperta è che richiede al sistema adozioni grandi doti “sartoriali”: non esiste una soluzione preconfezionata, bisogna valutare la situazione caso per caso, per costruire in maniera adatta la “proposta”. E saperla mantenere flessibile nel tempo, perché se il “contatto”, più o meno diretto, deve essere funzionale ai bisogni del minore, non possiamo dimenticare che questi cambiano nel tempo.
12. I bisogni del minore, anche dal punto di vista relazionale, cambiano nel tempo. Se questo è al centro, come si concilia con il fatto che a un certo punto bisognerà pur scrivere qualcosa nero su bianco rispetto alla modalità, frequenza e intensità dei contatti con la famiglia di origine?
Nel Regno Unito la sentenza stessa dice che i contatti vanno gestiti in maniera flessibile e si prevede il ritorno ai servizi sociali e al tribunale per i minorenni per ridefinire le modalità del contatto. Occorre fare una foto dell’oggi immaginando già cosa potrebbe accadere da qui a un anno o due, prevedendo il monitoraggio e la flessibilità necessaria per “aggiustare” le cose, nel caso, strada facendo. Credo che sia fondamentale il ruolo dei servizi, perché è necessario essere aggiornati sulla situazione per agire e mettere in atto la flessibilità necessaria. La sfida interessante è che l’adozione aperta obbliga a non dimenticarsi del post adozione, perché evidentemente non si può pensare di fare una sentenza di adozione aperta e poi di “abbandonare” le famiglie: dobbiamo prevedere risorse che le accompagnino. Penso a quei casi in cui al momento dell’adozione è possibile immaginare che nel giro dei 2 o 3 anni successivi il minore prenda contatto o venga contattato da qualche componente della sua famiglia di origine: in questi casi sarebbe necessario prevenire con una forma di adozione che contempli questa possibilità e che regolamenti questi contatti. È un modo per monitorare e sostenere qualcosa che probabilmente succederà comunque, ma almeno avverrà in maniera mediata e accompagnata.
La sfida interessante è che l’adozione aperta obbliga a non dimenticarsi del post adozione, perché evidentemente non si può pensare di fare una sentenza di adozione aperta e poi di “abbandonare” le famiglie: dobbiamo prevedere risorse che le accompagnino
13. Lei segue professionalmente ragazzi e famiglie alle prese con il tema della ricerca delle origini: quali percorsi ha visto? Queste relazioni con i familiari di origine sono positive per il minore?
Non saprei dire come abbiano funzionato i rari casi di sentenze di adozioni legittimanti aperte: io personalmente non ne ho seguite. Nei casi invece di adozioni aperte di fatto, dove i contatti sono avvenuti e non erano previsti devo dire che le situazioni possono essere molto complesse, soprattutto perché oggi le famiglie sono sole nella gestione del contatto e della relazione e non sono pronte né sostenute immediatamente quando questo avviene. I genitori si accorgono dopo di quel che è successo, perché il contatto avviene in maniera non controllata e monitorata. I minori sanno che la loro adozione prevede un taglio netto e questo non li fa sentire legittimati nel loro bisogno di creare o mantenere ponti con il proprio “prima”: ma siccome questo bisogno c’è ed è comune (gli adottati adulti ce lo dicono a gran voce), il contatto avviene quasi sempre di nascosto. Significa che se questo bisogno è presente, è importante riconoscerlo e legittimarlo, trovando un equilibrio. Perché non dimentichiamo che il ragazzino da un lato ha il bisogno di evitare lo strappo, ma dall’altro deve essere anche protetto e tutelato, per questo il contatto non può mai essere affidato al minore e al genitore biologico. Le coppie andrebbero preparate maggiormente al fatto che l’adozione chiusa nei fatti non esiste praticamente più, come spesso ripete il dottor Vadilonga. Il contatto, oggi, quando arriva, è una bomba che esplode: successivamente si trova il modo di gestire il rapporto, ma all’inizio sicuramente mette in difficoltà tutti. Molto diversa invece la situazione in cui il contatto è stato accompagnato e mediato nel tempo, inserito in una cornice di senso, legittimato, con un sistema che fa sentire il minore protetto anche in questo.
14. Da quali pregiudizi dobbiamo sgomberare il campo, per poter affrontare serenamente il tema dell’adozione aperta?
Dobbiamo uscire dall’idea che l’adozione aperta sia solo avere contatti diretti che coinvolgono in prima persona il minore. Nel Regno Unito in una grande percentuale di adozioni aperte il contatto avviene come letter box contact. Il genitore biologico o il familiare non hanno elementi identificativi degli adottivi, non hanno l’indirizzo di casa, generalmente ci sono i nomi di battesimo ma non necessariamente: annualmente la famiglia adottiva fa avere tramite i servizi delle informazioni, oppure la famiglia d’origine manda un biglietto di auguri a Natale o per il compleanno, sempre tramite i servizi. Questo è quello che succede nella maggioranza dei casi. Altre volte ci sono scambi di mail o telefonate. Possono esserci degli incontri diretti, ma anche questi non sempre coinvolgono il minore: una prassi ormai avviata è quella che in fase di abbinamento i servizi presentino i genitori adottivi ai genitori di nascita, in un luogo neutro (come peraltro è accaduto anche nell’adozione internazionale). Questo one off meeting, che avviene una tantum, da un lato rassicura la famiglia di origine, mentre la famiglia adottiva diventa portatrice di un pezzo di storia del minore, perché potrà dire di aver essa stessa incontrato una volta la famiglia di origine. In Italia invece quando si parla di adozione aperta si parla sempre di contatti diretti, non sento mai menzionare l’idea di scambi mediati, mentre meriterebbero molta attenzione. Un altro tema è la frequenza: un conto è una volta all’anno, un altro è una volta al mese. Abbiamo un po’ il retaggio dei luoghi neutri degli affidamenti – mi ripeto – e così quando immaginiamo l’adozione aperta la immaginiamo come una cosa che prosegua regolarmente. Ma i tempi del contatto devono rispettare i bisogni del minore, incluso quello di potersi immergere a pieno nel suo nuovo contesto familiare.
Già nel 2007 Lazzaro Gigante, parlando di adozione mite, diceva che di fronte alla complessità dei casi serve allargare lo sguardo per evitare impoverimento delle soluzioni. L’adozione aperta è una strada possibile, ma bisognerebbe prevedere più formazione per le famiglie e per gli operatori
15. Che cosa serve invece? L’adozione aperta è una strada possibile per riuscire a dare risposte più attuali alle fragilità delle famiglie e ai bisogni dei minori?
Già nel 2007 Lazzaro Gigante, parlando di adozione mite, diceva che di fronte alla complessità dei casi serve allargare lo sguardo per evitare impoverimento delle soluzioni. L’adozione aperta è una strada possibile, ma bisognerebbe prevedere più formazione per le famiglie e per gli operatori, perché davvero le famiglie vanno accompagnate e sostenute. Gli operatori ci devono credere, le coppie vanno selezionate accuratamente perché l’adozione aperta richiede disponibilità e competenze specifiche di cooperazione, comunicazione, mediazione. Va valutato caso per caso rispetto al bambino ma anche rispetto alla famiglia. Non dimentichiamoci che il punto di partenza è sempre il bambino, con i suoi bisogni, dunque la necessità è quella di trovare la famiglia che possa essere la migliore per lui.
Foto di Samuel Rios su Unsplash
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