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Kosovo e Serbia, le aspirazioni europee come medicina

Il 18 marzo a Ohrid, in Macedonia, Aleksandar Vucic e Albin Kurti si sono impegnati davanti ai mediatori europei a rispettare un accordo sul percorso da seguire per la normalizzazione delle relazioni fra Serbia e Kosovo. Appena uscito dalla stanza, però, Vucic, ha dichiarato che il documento contiene linee rosse che la Serbia non potrà mai oltrepassare. Carta straccia, quindi?

di Paolo Bergamaschi

Sgombriamo il campo da ogni equivoco: il Kosovo è uno stato indipendente anche se non fa parte delle Nazioni Unite. Chi mette in dubbio questa affermazione non vuole arrendersi ad una realtà di fatto incontrovertibile. Dal febbraio del 2008 a Pristina c'è un presidente, un primo ministro, un governo e un parlamento eletti democraticamente che funzionano come in tutti i paesi del vecchio continente salvo, naturalmente, Russia e Bielorussia.

Non tutto è perfetto, ovvio, anzi c'è ancora molto da fare per affrontare e gestire i problemi di uno stato normale che cerca di comportarsi come tale anche se è escluso dai principali organismi internazionali. Belgrado non ha mai accettato lo strappo dell'ex- provincia che la costituzione della Serbia considera ancora parte integrale del territorio nazionale. Ma nessuno, almeno chi ha un po' di sale in zucca, può pensare di rimettere indietro le lancette della storia riportando il Kosovo sotto l'ombrello serbo. Solo chi è salito al potere giocando spregiudicatamente la carta dell'etno-nazionalismo e chi ha interesse a soffiare sul fuoco dell'instabilità permanente può pretendere di farlo anche se sa già che comunque il tentativo non andrà a buon fine. I presidenti di Serbia e Russia Alexandar Vucic e Vladimir Putin, da questo punto di vista, vanno a braccetto sostenendosi a vicenda. La comunità serba in Kosovo è ridotta a poco più di 90.000 persone che corrisponde a circa il 6% della popolazione. E' concentrata per metà nella parte settentrionale del paese, al confine con la stessa Serbia, e sparsa in piccole enclavi nel resto del territorio. Il fiume Ibar divide a nord la città di Mitrovica.

Sono i carabinieri italiani che presidiano il ponte che collega le due sponde dalle quali i due gruppi etnici si guardano di traverso. Nelle enclavi meridionali le comunità serbe sono state obbligate per sopravvivere a interagire con la popolazione albanese circostante trovando un ragionevole modo di coesistere. Non così nella zona di Mitrovica Nord dove l'omogeneità etnica e la continuità territoriale consentono a Belgrado di imporre la propria volontà perseguendo i propri obiettivi egemonici. A Mitrovica Nord si paga in dinari come in Serbia e non in euro come nel resto del Kosovo (no, non è un errore, l'euro è la valuta ufficiale del Kosovo!), sventolano ovunque le bandiere serbe e le auto che circolano portano una targa serba. Ed è stata proprio la questione della reiscrizione dei veicoli nei registri kosovari che alla fine dello scorso anno ha scatenato l'ennesima crisi che si sta ripercuotendo in questi giorni.

In seguito alle dimissioni in blocco dei sindaci delle municipalità settentrionali il governo di Pristina ha convocato il 23 aprile scorso nuove elezioni comunali che la comunità serba ha, però, boicottato. Solo gli albanesi, che in quelle zone sono un'esigua minoranza, hanno preso parte alle consultazioni con il risultato che alla fine il 3,5 % degli elettori ha scelto sindaci, ovviamente di etnia albanese, che dovrebbero rappresentare l'intera popolazione locale. Venerdì scorso, quando gli eletti hanno cercato di entrare nei municipi per esercitare le proprie funzioni sono scoppiati i primi tafferugli fra i dimostranti serbi che bloccavano gli ingressi degli edifici ed i corpi speciali di polizia inviati prontamente da Pristina per prevenire e sedare i disordini senza un coordinamento preventivo con il contingente internazionale Kfor (3800 uomini di cui 900 italiani) incaricato dalle Nazioni Unite di garantire la stabilità del Paese.

Domenica mi trovavo a Zvecan, uno dei quattro comuni serbi, dove tutto lasciava presagire quello che poi è successo. Il 18 marzo a Ohrid, in Macedonia, Aleksandar Vucic e Albin Kurti si sono impegnati davanti ai mediatori europei a rispettare un accordo sul percorso da seguire per la normalizzazione delle relazioni fra Serbia e Kosovo. Appena uscito dalla stanza, però, Vucic, ha dichiarato che il documento contiene linee rosse che la Serbia non potrà mai oltrepassare. Carta straccia, quindi? Se lo chiedono tutti. Fino al giorno in cui i due leader capiranno che senza uno sforzo genuino di riconciliazione sarà impossibile costruire una pace sostenibile e duratura.

Entrambi i Paesi aspirano ad entrare nell'Unione Europea dove i confini fra Stati Membri erano muri insormontabili che oggi sono solo linee sulla cartina. È stata una scommessa vincente che deve valere anche per i Balcani.

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