Sostenibilità

Clima, le prime 21 compagnie fossili mondiali ci costano 209 miliardi di dollari l’anno

Chi paga per i danni causati dalla crisi climatica? È questa la domanda che ha ispirato uno studio rivoluzionario appena pubblicato sulla rivista One Earth. A Saudi Aramco e a Exxon, ad esempio, sarebbero attribuite responsabilità annuali per circa 43 e 18 miliardi di dollari di danni rispettivamente. Alla russa Gazprom oltre 20 miliardi di dollari. Poi Shell (16,3 miliardi di dollari), BP (14,5 miliardi di dollari), Chevron (12,8 miliardi di dollari), Total Energies (9,4 miliardi di dollari)

di Andrea Di Turi

Chi paga per i danni causati dalla crisi climatica? È questa la domanda che ha ispirato uno studio rivoluzionario appena pubblicato sulla rivista peer-reviewed One Earth. Una domanda che in questi giorni è di drammatica attualità anche nel nostro Paese per via delle alluvioni che hanno devastato l'Emilia-Romagna provocando, oltre a vittime, danni economici ingentissimi. Lo studio è il primo nel suo genere a livello mondiale e si fonda su una logica semplice e stringente: essendo ormai acclarato che la causa di gran lunga principale del surriscaldamento globale e quindi della crisi climatica è l'utilizzo dei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas), per ripagare i danni del clima impazzito bisogna andare a battere cassa da chi questo "veleno", climaticamente parlando, lo estrae, lo produce e lo mette in circolo. Vale a dire Big Oil, le maggiori compagnie che operano nell'oil&gas e in generale nel settore delle fossili. Sulle quali le stime dello studio infatti si concentrano.

Le 21 principali aziende di combustibili fossili del mondo, secondo lo studio, sarebbero responsabili complessivamente di danni attesi derivanti dalla crisi climatica nel periodo 2025-2050 per 209 miliardi di dollari l'anno. Sull'intero periodo, la cifra toccherebbe i 5,4 trilioni di dollari (5mila e 400 miliardi di dollari). Lo studio scende nei dettagli per le singole compagnie. A Saudi Aramco e a Exxon, ad esempio, sarebbero attribuite responsabilità annuali per circa 43 e 18 miliardi di dollari di danni rispettivamente. Alla russa Gazprom oltre 20 miliardi di dollari. Poi Shell (16,3 miliardi di dollari), BP (14,5 miliardi di dollari), Chevron (12,8 miliardi di dollari), Total Energies (9,4 miliardi di dollari).

Ma come si arriva a queste cifre? Lo studio si è basato da un lato sui dati del Carbon Majors Database, che tiene conto delle emissioni cumulate di Co2 (operative e di prodotto) delle società più inquinanti del pianeta, considerando il periodo 1988-2022. Dall'altro, su un'analisi condotta da quasi 750 economisti internazionali del clima, che hanno quantificato in 99 trilioni di dollari (99mila miliardi) i danni economici globali attesi a causa della crisi climatica tra 2025-2050. Il valore dei danni è stato quindi allocato alle società fossil fuels in base alle loro rispettive emissioni cumulate, calcolate in percentuale delle emissioni attribuibili al settore fossil fuels globale.

Le cifre, già enormi, sarebbero potute essere anche più grandi se lo studio non avesse fatto una serie di assunzioni molto conservative, se cioè non fosse stato particolarmente prudente nell'attribuire le "colpe" dei danni e quindi le responsabilità di ripagarli. Per esempio, dai 99 trilioni di dollari di cui sopra lo studio è sceso a 69,6 trilioni di dollari eliminando le fonti del surriscaldamento globale non legate ai combustibili fossili. Di questi, poi, un terzo è stato attribuito all'azione (o, meglio, inazione) dei governi, un terzo al comportamento dei consumatori e solo un terzo (23,2 trilioni di dollari nel periodo, cioè 893 miliardi l'anno) all'industria globale dei combustibili fossili. C'è poi un'assunzione di natura morale in base alla quale le aziende fossili dei Paesi a basso reddito (come National Iranian Oil o Coal India) sono state esentate, e la responsabilità di quelle dei Paesi a medio reddito (la brasiliana Petrobras, la messicana Pemex, la stessa Gazprom) è stata dimezzata: ciò in ossequio a un "principio di bisogno", tenendo cioè conto del fatto che, anche in un contesto di crisi climatica conclamata, le popolazioni dei Paesi meno sviluppati hanno necessità di massimizzare il contributo allo sviluppo (in termini ad esempio di entrate fiscali, occupazione) offerto dalle società fossili.

La domanda successiva da porsi è come i risultati di questo studio potranno ora essere usati, sempre nella prospettiva di ottenere riparazioni per i danni derivanti dalla crisi climatica. «Con in mano uno studio come questo – risponde il professor Marco Grasso, Università Milano-Bicocca, autore principale dello studio insieme a Richard Heede, cofondatore e direttore del Climate Accountability Institute -, un giudice ha una base solida per sostenere una richiesta di compensazione dei danni, perché è la prima volta che si mettono nero su bianco numeri oggettivi basati su una stima scientifica dei danni dei cambiamenti climatici. Le cause contro le compagnie fossili stanno aumentando in tutto il mondo, in quelle negli Stati uniti si parla ormai apertamente di richieste di compensazione di danni, ma potrebbe avvenire anche nel nostro ordinamento». L'accertamento del danno, ad esempio, è fra gli obiettivi della causa civile intentata contro Eni da Greenpeace, ReCommon e dodici cittadini italiani per i danni derivanti dai cambiamenti climatici a cui la società avrebbe contribuito. «Sta diventando sempre più raffinata – aggiunge il professor Grasso – quella branca della scienza del clima denominata attribution science, che collega un singolo evento estremo a una determinata fonte di emissioni climalteranti: in futuro sarà possibile in maniera sempre più precisa operare collegamenti diretti per attribuire la responsabilità del danno. Quando si riflette su chi deve pagare, si pensa di solito a Stati, Regioni, alle compagnie assicurative. Ma "l'elefante nella stanza" sono le compagnie fossili, che hanno responsabilità chiarissime e potrebbero concorrere a pagare i danni».

Si tenga conto, infine, che lo studio ha considerato solo i danni calcolabili in termini di mancato Pil (Prodotto interno lordo): perdita di vite umane e di mezzi di sussistenza, perdita di servizi ecosistemici, estinzioni, altre dimensioni di benessere non sono state calcolate. È evidente che allargando lo sguardo "oltre il Pil" i danni della crisi climatica decolleranno.

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