Sostenibilità

Giovannini: «In Italia, 60 mila morti premature all’anno per l’inquinamento»

Secondo l’ex ministro, direttore scientifico di Asvis, è questo il dato da cui partire quando si discute di sostenibilità. E non è così vero che il passaggio all’auto elettrica sarà un suicidio per l’economia: «Con la transizione ecologica, grazie a politiche appropriate, si può evitare di distruggere posti di lavoro, ma anzi crearli». Dialogo a tutto campo, a un anno dall’inserimento della tutela dell’ambiente in Costituzione

di Nicola Varcasia

Con Enrico Giovannini si parla di sviluppo sostenibile, non di decrescita felice. Chiarito questo, emerge con altrettanta chiarezza che la strada è piena di difficoltà, tra lobby «che sanno fare il loro mestiere» e notizie superficiali che inquinano il dibattito. Eppure, giusto un anno fa, l’Italia ha inserito in Costituzione l’attenzione per l’ambiente nell’interesse delle nuove generazioni. Assieme a Giovannini, co-fondatore e oggi direttore scientifico dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis), docente universitario, due volte ministro, la più recente nel governo Draghi, facciamo il punto della situazione.

Come si colloca il nostro Paese rispetto alla transizione ecologica?

Purtroppo, male, come mostrano gli indicatori statistici disponibili, e non da oggi. Con il Pnrr si è deciso un investimento senza precedenti sull’energia rinnovabile, sulla mobilità sostenibile, sulla trasformazione del sistema economico per essere più sostenibile sul piano ambientale. È ancora presto per dare una valutazione sull’operato del nuovo Governo su un tema così ampio. L’Italia è comunque inserita nel quadro dei paesi che hanno scelto di fare della transizione ecologica il centro del nuovo modello di sviluppo per il nostro continente. Lo ha fatto con il Next generation Eu e altre importanti politiche europee.

Quali?

Pensiamo, ad esempio, alla rendicontazione obbligatoria per le imprese sull’impatto di sostenibilità delle proprie attività. Oppure alla supervisione bancaria, che richiede alle banche europee di valutare l’esposizione potenziale dei prestiti alle imprese rispetto ad attività a forte rischio per la crisi climatica. L’orientamento generale va dunque nella direzione della transizione ecologica, con tutti i problemi legati al passaggio da un sistema di sviluppo insostenibile verso uno sostenibile.

Siamo sicuri di questo, non c’è allarmismo?

L’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo è ormai evidente sia sul piano ambientale che sociale. Lo vediamo dalle disuguaglianze, cresciute anche a seguito della pandemia e della crisi energetica, con tante famiglie che, anche in Europa, sono state spinte verso condizioni di povertà e di salute precaria. Abbiamo un assoluto bisogno di cambiare direzione, non ci sono alternative. Per questo in Italia bisogna accelerare le politiche verso lo sviluppo sostenibile. Come dimostra il rapporto Asvis di ottobre, non siamo in linea sul percorso di raggiungimento dei 17 Obiettivi dell’Agenda 2030.

Non pensa che l’Agenda 2030 possa apparire come un orizzonte indefinito rispetto alle scelte che si compiono?

Se la si analizza, guardando ai 169 target relativi ai vari Obiettivi, l’Agenda 2030 è estremamente concreta: prevede, ad esempio, il dimezzamento del numero di persone uccise o ferite in incidenti stradali, l’eliminazione delle disuguaglianze di opportunità e la riduzione di quelle di risultato, l’accesso a cure adeguate, la riduzione delle emissioni di anidride carbonica e di altri inquinanti, alla tutela delle risorse idriche, per ricordare solo alcune questioni che toccano la vita di tutti i giorni di milioni di persone.

E dal punto di vista delle politiche ambientali?

La sfida più complessa, dove le posizioni politiche divergono maggiormente, è far uscire il mondo economico dalla dipendenza dalle energie fossili, con la transizione verso sistemi di produzione rispettosi dell’ambiente, ma anche di stili di vita e di comportamento coerenti con il funzionamento degli ecosistemi.

Perché tanta resistenza?

Come è noto, si tratta di un profondo cambiamento, che tocca le modalità di produzione energetica e manifatturiera, le scelte di mobilità, la produzione agricola, ecc. Pensiamo al pacchetto “Fit for 55”, fulcro del Green deal europeo, votato dall’Italia nel 2021 con gli altri Paesi, per la riduzione delle emissioni di gas climalteranti del 55% entro il 2030. Sono temi su cui occorre accelerare, tenendo conto dell’obiettiva difficoltà di accompagnare le persone e le imprese al cambiamento, evitando che la transizione venga pagata da chi è in condizioni svantaggiate. Lo vediamo nei casi della transizione alle auto elettriche e del miglioramento dell’efficienza energetica delle case.

Come rispondere a chi dice che il passaggio all’elettrico è un suicidio che farà perdere all’Italia 70/80 mila posti di lavoro?

A parte il fatto che altre stime parlano di circa 15 mila posti realmente a rischio, bisognerebbe prima chiedersi che cosa contiamo di fare per i 60 mila morti premature all’anno che abbiamo in Italia a causa dell’inquinamento.

È un numero spaventoso.

Si, inaccettabile. Giustamente, bisogna preoccuparsi dei lavoratori che rischiano di perdere il posto ma, intanto, il contatore delle morti premature per malattie legate all’inquinamento (non solo dovuto alle auto, ma anche ai riscaldamenti, alle industrie, ecc.) continua a correre. Peraltro, è più facile riconvertire il settore automobilistico, dove i produttori hanno già capito la necessità della trasformazione, che gli altri comparti. Queste morti non sono neanche contabilizzate nel pil, anzi, le cure mediche effettuate per cercare di evitarle concorrono ad aumentarlo: è questo il modo corretto di fare i conti?

Come fare, dunque?

Vanno rafforzate le politiche per accompagnare questa trasformazione, con fondi europei e nazionali. Ad esempio, durante il governo Draghi, nell’ambito delle misure per il Pnrr, sono stati destinati 300 milioni di euro per favorire il ritorno in Italia dei produttori di autobus ecologici, elettrici o a idrogeno. Una grande impresa ha deciso di farlo. È solo un esempio per dire che con la transizione ecologica, grazie a politiche appropriate, si può evitare di distruggere posti di lavoro, ma anzi di crearli.

Per quanto riguarda l’edilizia?

Gran parte delle nostre case è dotata di sistemi di riscaldamento inefficienti, che contribuiscono all’inquinamento delle città e determinano alti costi per le famiglie. Il meccanismo del 110% non era la soluzione a lungo termine, ma prima cominciamo a favorire la sostituzione degli impianti inefficienti con quelli alimentati da energia rinnovabile, prima le famiglie cominceranno a risparmiare.

Che cosa pensa della mossa di stati americani come Texas e Florida che impediscono alle casse pubbliche di investire in fondi Esg?

Che la transizione ecologica non sia una “passeggiata di salute” non c’è dubbio, perché cambia profondamente il modo di produrre, consumare e dunque di occupare le persone e di guadagnare. Quindi, non mi sorprende se, dopo decenni di vantaggi economici, sociali e politici, le lobby delle imprese che pensano di essere sfavorite dalla transizione facciano il loro mestiere.

Chi sono gli alleati della svolta?

Dobbiamo avere fiducia anche nella capacità degli imprenditori di guardare dov’è il futuro. Come ci ricorda spesso la Fondazione Symbola, oggi in Italia abbiamo dei campioni di tecnologie green e si tratta di soggetti che aumentano l’occupazione, generano redditività elevate e remunerano gli azionisti. Sono imprese che semplicemente hanno deciso di investire in termini di ricerca, innovazione, capitale umano, di prodotti in quella direzione. E i risultati si vedono, anche dal punto di vista economico.

Basterà?

Come dicevamo, mi sembra naturale che da parte dei prevedibili perdenti di questa transizione ci sia una resistenza a perdere le opportunità avute in passato. Il punto fondamentale è capire dov’è il nostro benessere futuro, e questa è una scelta culturale e politica. L’apparente conflitto tra ragioni dell’economia e dell’ambiente può essere e va superato grazie allo sviluppo tecnologico e agli investimenti, anche perché le nuove generazioni, sulle quali ricadranno i costi delle scelte sbagliate fatte finora, giustamente non hanno intenzione di continuare a pagare per sempre.

Esattamente un anno fa l’Italia, con la modifica degli articoli 9 e 41 della Costituzione, ha inserito tra i compiti della Repubblica la tutela dell’ambiente.

Altrettanto importante e decisivo è che lo stesso articolo 9 ora specifica che la tutela avvenga “anche nell’interesse delle future generazioni”. Tuttavia, i nuovi principi costituzionali impongono un cambiamento significativo nel modo di elaborare le politiche pubbliche e di definire le strategie aziendali, guardando in anticipo le conseguenze anche ambientali delle une e delle altre. Il percorso è tutt’altro che concluso ed è proprio qui dove la politica, la cultura e, vorrei aggiungere, un po’ più di attenzione e profondità da parte dei media potrebbero aiutare a fare il salto di qualità. Il problema è complesso, le soluzioni altrettanto complesse, e tutto ciò non può essere trattato con la superficialità che talvolta vedo nel dibattito pubblico.

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