Famiglia

Genitori performanti o genitori incerti?

C'è un modello di genitorialità che si è imposto, fatto di standard, competenze, doveri. Una pressione che sfianca tutti e soprattutto i genitori che vivono situazioni di particolare incertezza. Un genitore povero, LGBT+ o rifugiato come vive il confronto con queste aspettative e quali competenze matura? E i servizi sociali quanto ne sono influenzati? Una ricerca coordinata dalla professoressa Silvia Fargion fa luce sul sapere di cui è portatore chi è genitore in terreni incerti

di Sara De Carli

Essere genitori è questione di performance? Perché tutti noi ci sentiamo schiacciati dalla competizione con uno standard ideale del “buon genitore” che richiede competenze e performance e soprattutto porta con sé la terribile sensazione che dal nostro impegno di genitori di oggi deriverà in maniera quasi deterministica il futuro dei nostri figli, il loro equilibrio, la loro felicità, lo sviluppo del loro cervello? Dalle neuroscienze alle trasmissioni tv, negli ultimi anni si è imposta questa idea di educazione dei figli. «Ai genitori si chiede di essere presenti e attivi, di intervenire in ogni aspetto della vita dei bambini, di dedicare un’enorme quantità di tempo e denaro alla loro educazione, di sostenere in modo forte l’andamento scolastico, di organizzare attività extrascolastiche, formative, sportive, ecc», dice Silvia Fargion, assistente sociale e professoressa ordinaria di Sociologia e servizio sociale all’Università di Trento.«Tutti gli aspetti della vita dei bambini vengono visti richiedere un’attenta pianificazione e organizzazione in modo da fornire opportunità ottimali per lo sviluppo e garantendo così alti risultati scolastici, presupposto per il successo in una società competitiva».

Ma che succede ai genitori che si trovano a vivere situazioni di particolare incertezza? Uomini e donne che devono giocare il loro ruolo genitoriale in contesti di estrema povertà, per esempio, quando è impossibile reggere il confronto con “lo standard” di tutto ciò che nella vulgata odierna un “buon genitore” deve garantire ai figli? Uomini e donne che hanno affrontato una migrazione forzata e che dopo l’esperienza per lo più drammatica della traversata, per esempio, si trovano soli ad essere genitori in un contesto completamente diverso da quello che conoscono? Che vivono una genitorialità LGBT+ oppure un divorzio altamente conflittuale? Come vivono la loro esperienza di genitori? Quali strategie mettono in atto? Quali competenze, magari impreviste, mostrano di avere? E cosa può dire la loro esperienza concreta – le loro “pratiche del fare famiglia”, spesso così distanti dal presunto dover essere della famiglia dei Cornflakes Packet – ai servizi e ai professionisti che di famiglia si occupano, che queste famiglie dovrebbero supportarle e invece non di rado si ritrovano anch’essi a giudicarle?

“Costruzioni di genitorialità su terreni incerti – CoPInG: quale ruolo per il servizio sociale?” è la ricerca di cui Silvia Fargion è la principal investigator. I risultati verranno presentati a Roma il prossimo 28 febbraio (è possibile seguire i lavori anche in streaming dalla pagina Facebook del Cnel). La ricerca ha avuto un finanziamento Prin, cioè è stata riconosciuta tra i Progetti di Rilevante Interesse Nazionale: come paese abbiamo la necessità di provare a costruire insieme strumenti nuovi per affrontare le difficoltà che nascono nelle famiglie. Alla ricerca hanno lavorato ricercatori dell’Università di Bolzano (genitorialità LGBT+), dell’Università della Calabria (genitori in situazione di migrazione forzata), della Bicocca e dell’Università di Trieste (genitori in situazione di povertà). Con Silvia Fargion, in particolare, sulla genitorialità in situazioni di alta conflittualità ha lavorato Diletta Mauri, assistente sociale, dottoranda al dipartimento di psicologia e scienze cognitive dell’Università di Trento. «Sono le situazioni su cui i servizi si sentono più “sfidati”, sentono di avere meno strumenti per affrontarli».

Quali sono state le motivazioni che hanno mosso questo lavoro di tre anni?

Fargion: La ricerca è nata più generale, siamo partiti dal fatto che fare i genitori oggi è complesso e ricco di incertezze. Si parla spesso di genitori incerti, quasi accusandoli, ma è il contesto ad essere incerto: se fossero sicuri non sarebbero genitori di oggi, sarebbero ancorati a modelli che non ci sono più. L’analisi della letteratura ci ha portato a riscontrare la dominanza del modello di una “genitorialità intensiva”, che definisce degli standard e mette continuamente a confronto la genitorialità con essi. È l’idea che ci sono competenze da acquisire, l’ossessione del tempo di qualità, il fatto che i figli debbano essere molto stimolati perché altrimenti gli rimarranno dei “buchi” nel cervello… Ci sono tutta una serie di diktat: bisogna far ascoltare la musica ai figli già quando sono nella pancia, devono fare sport, attività espressive, leggere… Sto banalizzando, ma questo è l'approccio dominante. A volte è anche l'approccio dei professionisti, che quando osservano e valutano la genitorialità delle famiglie che seguono, fanno riferimento a degli standard. Il nostro approccio è stato un altro: andare a vedere quali sono le sfide che i genitori affrontano, i loro “main concern”, quali sono le strategie risolutive che mettono in atto. Da una ricerca che abbiamo realizzato in precedenza, per esempio, era emerso che per i genitori di oggi il main concern è mantenere viva una relazione con i figli, perché oggi questa relazione non si può più darla per scontata: tutti genitori sentono oggi che o ci investono o la relazione la perdono, in concorrenza con tante altre cose. Quindi il mantenere viva la relazione con i figli è un lavoro genitoriale che spiega alcune cose: per esempio quando si dice che i genitori di oggi non hanno autorevolezza, i genitori dicono che nell’ottica della mediazione, le cose meno importanti vanno lasciate perdere.

Oggi ci sono tutta una serie di diktat: bisogna far ascoltare la musica ai figli già quando sono nella pancia, devono fare sport, attività espressive, leggere… Sto banalizzando, ma questo è l'approccio dominante. A volte è anche l'approccio dei professionisti, che quando osservano e valutano la genitorialità delle famiglie che seguono, fanno riferimento a degli standard. Il nostro approccio è stato un altro: andare a vedere quali sono le sfide che i genitori affrontano, i loro “main concern”, quali sono le strategie risolutive che mettono in atto.

Silvia Fargion

Quindi c’è un tema di riconoscimento dei genitori e del loro sapere.

Fargion: Riconoscimento è una parola chiave del nostro lavoro. Siamo partiti proprio dal fatto che nella ricerca c’è un buco che riguarda l’ascolto dei genitori: a volte vengono intervistati, ma raramente lo si fa per capire come sono capaci di stare nelle situazioni, come le affrontano, cosa imparano. La nostra ricerca invece si concentra su questo, sul capire le strategie risolutive che i genitori mettono in campo ma anche quelle che permettono loro semplicemente di stare, di continuare ad essere genitori anche in una situazione difficile. Genitori che studiano il modo di essere genitori, per esempio, con figli che non vogliono più vederli e che vanno ai colloqui con gli insegnanti perché quello è il solo modo che hanno per continuare ad essere genitori.

Cosa mettiamo nella cassetta degli attrezzi degli operatori, in particolare degli assistenti sociali, a valle della ricerca?

Fargion: Intanto dei fuochi di attenzione, che oggi nel lavoro quotidiano rischiano di non esserci. Una mamma intervistata ci ha detto che “i servizi sociali sono imperniati sui bambini, e questo va benissimo, ma dei genitori chi se ne occupa?”. Non possiamo più prescindere da un’attenzione alla genitorialità, che magari i singoli assistenti sociali hanno ma non è riconosciuta dai servizi. I bambini hanno bisogno dei loro genitori, lavorare per il benessere dei bambini è anche lavorare in maniera esplicita nall’affiancamento dei genitori. Oggi questo lavoro, se accade, è poco visibile e poco riconosciuto.

Mauri: Il servizio sociale è una delle discipline più abituate a prendere in considerazione linguaggi e prospettive diverse, ma tutt’oggi c’è il rischio di non riconoscere un sapere importante, quello dei genitori sui propri figli. Nelle situazioni di alta conflittualità per esempio – un tema che impegna tantissimo i servizi sociali – spesso ci si sente “tirati” ad aderire a una o all’altra verità dei genitori e allora quasi si rinuncia ad ascoltare i genitori con l’atteggiamento di pensare che anch’essi portino una loro verità e un loro sapere. Il genitore allora sente di avere un sapere che non conta nulla, ma come si può pretendere poi di trovare il terreno su cui allearsi? Per i servizi, da un punto di vista metodologico, significa domandarsi come fare a conoscere queste voci e come utilizzarle.

Non possiamo più prescindere da un’attenzione alla genitorialità, che magari i singoli assistenti sociali hanno ma non è riconosciuta dai servizi. I bambini hanno bisogno dei loro genitori, lavorare per il benessere dei bambini è anche lavorare in maniera esplicita nall’affiancamento dei genitori. Oggi questo lavoro, se accade, è poco visibile e poco riconosciuto.

Silvia Fargion

“L’ha detto la mamma” quindi è sinonimo di “zero credibilità”?

Fargion: Si chiama ingiustizia epistemica. Significa che la verità di certe persone viene creduta meno per il fatto che queste persone appartengono a una certa categoria. Ai genitori oggi non è riconosciuta credibilità. Vivono una deprivazione di credibilità. Gli insegnanti per esempio, che pure sono essi stessi in larga parte genitori, quando parlano dei genitori dei loro alunni ne parlano in termini generalmente negativi e si lamentano che i genitori di oggi lavorano soltanto e non seguono i figli, hanno spesso un atteggiamento giudicante. Servizi e scuola sono due esempi per dire che oggi è importante parlare alle istituzioni, perché come genitore davanti all’istituzione ti senti tra l’incudine e il martello. Sono mondi che chiedono tantissimo e si mettono molto poco in ascolto. Bisognerebbe avere un pensiero maggiore anche per gli “effetti contrari” che si hanno nel chiedere troppo ai genitori.

Ai genitori oggi non è riconosciuta credibilità. Vivono una deprivazione di credibilità. Si chiama ingiustizia epistemica, significa che la verità di certe persone viene creduta meno per il fatto che queste persone appartengono a una certa categoria.

Silvia Fargion

Valorizzare i genitori e il loro sapere, come si concilia con il fatto che ci sono situazioni in cui l’interesse prioritario dei minori non può stare insieme alla permanenza in famiglia? Non c’è il rischio di alimentare ulteriormente quel primato dei legami di sangue che in Italia già abbiamo molto forte?

Fargion: Noi non abbiamo acceso un focus sulle situazioni di maltrattamento. Valorizzare il sapere dei genitori non vuol dire che i bambini devono stare sempre con i genitori: ma anche nei casi di allontanamento a tutela del minore, per i bambini è importante vedere che la loro mamma e il loro papà sono rispettati. Quando i servizi non rispettano le persone, i servizi sono un trauma. I bambini possono anche essere arrabbiatissimi con i loro genitori, ma hanno bisogno che i servizi, i genitori, li rispettino.

Mauri: Noi non vogliamo dire che i genitori hanno torto o ragione, ma che portano delle verità e delle competenze che vanno ascoltate se vogliamo intervenire correttamente, quale sarà la scelta di intervento che il servizio farà.

Partiamo quindi dall’osservazione del dato di realtà, che sentiamo tutti addosso: essere genitori oggi comporta il confronto perenne (spesso ansiogeno o frustrante) con un modello performativo di genitorialità, con cui misurarsi. Un modello che peraltro presuppone anche un genitore benestante. Questa “professionalizzazione della genitorialità” cosa comporta?

Fargion: Oggi la genitorialità è guidata dall’idea che ci sia da fare un investimento sui figli, perché ne va del loro futuro. Non sto parlando solo di un investimento economico, ma di un’idea di genitorialità che trasforma ogni attività quotidiana in qualcosa che va curato, pensato e finalizzato. Che tu parli ai tuoi figli, che li accarezzi, che li coccoli.. tutto viene fatto in vista del loro benessere psicologico, della loro crescita armoniosa, di dare loro opportunità. Tutta la relazione viene trasformata da questo approccio, in un modo che produce una grande ansia. Non è solo l’idea che tu devi fare determinate cose per il suo futuro, ma l’idea che dalle cose che tu fai dipende il suo futuro. L'idea del determinismo genitoriale.

Mauri: Vorrei fare un esempio, per spiegarci meglio. Abbiamo intervistato una mamma separata che diceva di non poter smettere di combattere con il marito perché doveva garantire al figlio una scuola particolare, con l’inglese, “perché se non lo apprende adesso… non accadrà mai più, sono opportunità perse per sempre”. Oggi ci sono genitori che vivono questo senso di determinismo rispetto alle opportunità da garantire ai figli.

Noi non vogliamo dire che i genitori hanno torto o ragione, ma che portano delle verità e delle competenze che vanno ascoltate se vogliamo intervenire correttamente, quale sarà la scelta di intervento che il servizio farà. Anche nei casi di allontanamento a tutela del minore, per i bambini è importante vedere che la loro mamma e il loro papà sono rispettati.

Diletta Mauri

Proviamo ad entrare nel dettaglio delle quattro situazioni di genitorialità incerta che avete indagato? Per ciascuna area, due domande: qual è il tratto caratterizzante quella genitorialità e cosa dice la ricerca agli operatori? Cominciamo da chi vive in situazioni di grande povertà.

Fargion: Lo standard della “genitorialità intensiva” presuppone dei genitori benestanti e genera delle aspettative con cui tutti si confrontano. Noi abbiamo trovato che molto spesso i genitori che vivono queste situazioni per riuscire a fare i genitori si annullano. “Whatever it takes” è una sintesi azzeccata:annullano il proprio senso di dignità per dar da mangiare ai figli, per dare loro una casa. Io non conto più, chino il capo, chiedo a tutti, andrei a chiedere la carità per dare a mio figlio. L’unica cosa che li fa esistere è quando qualcuno riconosce questo loro impegno, invece di dire “non hai fatto questo e quell’altro”. La parola riconoscimento che abbiamo messo nel titolo del convegno – “Riconoscere la genitorialità su terreni incerti” – è emersa proprio da questo gruppo, poi abbiamo visto che vale per tutti ma certamente queste persone si sentono e sono in debito di riconoscimento. “Faccio qualsiasi cosa per mio figlio e non vengo nemmeno riconosciuto per questo”: è questo il loro sentire.

Mauri: Un’altra cosa molto forte è che c’è una dimensione strutturale su cui gli operatori fanno fatica a impattare, che riguarda le disuguaglianze economiche. Il rischio è che anche un riconoscimento dei genitori, se disgiunto dalla possibilità di dare un supporto nel far crescere i figli dandogli le stesse opportunità di tutti gli altri ragazzi, diventi critico. Gli operatori portano molto questo vissuto, investono nel riconoscimento ma poi si sentono impotenti, non hanno gli strumenti per agire concretamente. Un tema quindi è come poter far sì che si possa lavorare sul piano dello sviluppo di politiche. Bisogna tenere insieme la dimensione relazionale e quella strutturale.

Che tu parli ai tuoi figli, che li accarezzi, che li coccoli.. tutto viene fatto in vista del loro benessere psicologico, della loro crescita armoniosa, di dare loro opportunità. Tutta la relazione viene trasformata da questo approccio, in un modo che produce una grande ansia. Non è solo l’idea che tu devi fare determinate cose per il suo futuro, ma l’idea che dalle cose che tu fai dipende il suo futuro. L'idea del determinismo genitoriale.

Silvia Fargion

Una seconda area d'indagine è quella sulla genitorialità LGBT+: qui quali dimensioni emergono?

Fargion: Il main concern dominante, su cui questi genitori sono costantemente alla ricerca di soluzioni, è il fatto che c’è sempre uno che è genitore e l’altro no. Questa cosa concretamente vuol dire poter andare o non andare a prenderlo a scuola, se c’è un problema di salute le cose sono ancora più tremende: è un punto grosso su cui i servizi devono muoversi.

Mauri: Sono genitori che non prendono alla leggera cosa significa essere figli in una situazione così diversa. Si sono fatti tantissime domande prima sul diventare genitori e poi sul fatto di mettere o meno i loro figli in una situazione troppo complessa da gestire. Così cercano alleanze, contesti in cui è la loro scelta è più accettata e molti fanno una "scelta politica" nel senso di andare, parlare, spiegare, per preparare il terreno. Sono genitori che vanno a parlare con i dirigenti prima di iscrivere i figli a scuola, che ci tengono ad essere sempre presenti alle feste, che si rendono disponibili a fare i rappresentanti di classe.

Terza area, genitori rifugiati e richiedenti asilo, che hanno subito il trauma della migrazione forzata e i suoi costi e che anche quando sono in un porto sicuro navigano nella solitudine.

Mauri: Vivono una transizione nella transizione. La genitorialità è di per sé una transizione, ma per loro è ancora più forte. Sono genitori con figli che frequentano contesti educativi che li mettono molto in discussione, in cui non si sentono riconosciuti e valorizzati. Anche per loro c’è il tema della dimensione strutturale, spesso vivono in condizioni molto precarie per il percorso che hanno alle spalle, sono molto esposti a elementi faticosi da gestire anche dal punto di vista economico. Dal punto di vista dei servizi, da questo gruppo viene la messa a fuoco della pratica anti-oppressiva, la necessità che gli operatori si muovano nell'accettazione della diversità e non dire, per esempio, che i figli possono essere allattati solo fino a un anno e mezzo… Ci richiamano all’attenzione a una formazione sulla riflessività degli operatori.

Il passo in più è che gli assistenti sociali dovrebbero occuparsi non solo dei genitori ma occuparsi dei genitori come persone, perché una mamma o un papà non possano essere genitori se la loro dimensione di persona è completamente schiacciata. A volte sembra di andare fuori tema, invece questa è la precondizione perché possano riprendere in mano la loro genitorialità.

Diletta Mauri

La quarta area è quello delle separazioni conflittuali.

Mauri: Il main concern qui è la fatica di riposizionarsi. La separazione conflittuale comporta il fatto che le persone si trovano ad essere genitori da soli o genitori contro l’altro genitore. Devono tenere sotto controllo cosa dire e non dire ai figli, cosa l’altro dice o non dice di me, c’è sempre molta riflessione su questi aspetti, è un costante lavorio interiore… La letteratura su questi genitori in qualche modo si accanisce, mentre altre ricerche mostrano come i genitori, nel momento in cui i loro vengono classificati come divorzi altamente conflittuali, sentono di non essere più ascoltati, perdono di credibilità. A noi pare che questi genitori mettano al centro i figli e proprio questo comporta loro ansie molto grosse. I bambini sono centrali, forse troppo, di certo non poco. Bambini che per molto tempo stanno con l’altro genitore, in un contesto in cui l’altro – a torto o a ragione – è un nemico. Devono ricostruirsi come “genitore unico” che è diverso dal genitore single. Questo alimenta tensione e conflitto e porta a combattere per i figli. Un passo indietro lo avvertono come impossibile, perché temono che i figli lo vivano come un disinteressarsi di loro. Un messaggio agli operatori è quello di provare a spostare l’asse: il conflitto forse è irrisolvibile e rischia di non far vedere tutto il resto, quello che i genitori fanno. Se si prova a parlare d’altro, viene fuori la complessità del rapporto tra essere genitore ed essere persona. Il passo in più è che gli assistenti sociali dovrebbero occuparsi non solo dei genitori ma occuparsi dei genitori come persone, perché una mamma o un papà non possano essere genitori se la loro dimensione di persona è completamente schiacciata. A volte sembra di andare fuori tema, invece questa è la precondizione perché possano riprendere in mano la loro genitorialità.

Foto di Caleb Oquendo, Pexels

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