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Fagnani ha colto nel segno: la scuola in carcere fa sognare i ragazzi “sbagliati”

Il monologo della giornalista è stato scritto con i ragazzi di Nisida. Luigi Salvati dopo 31 anni nella casa circondariale di Poggioreale, da quattro anni insegna proprio nel minorile napoletano: «A scuola viene fuori la tenerezza, la povertà, il senso di mancanza per quella famiglia che non hanno avuto, le violenze subite, la speranza di essere accolti e riconosciuti come persone»

di Sara De Carli

«Vogliamo che la gente sappia che non siamo bestie o killer per sempre». Sono le parole che i ragazzi dell’istituto penale per minorenni di Nisida, a Napoli, hanno affidato a Francesca Fagnani, che ieri sera le ha portate sul palcoscenico di Sanremo. Per preparare il suo monologo, Fagnani ha partecipato a un laboratorio all’Ipm di Nisida sui temi della mediazione e del riconoscimento dell’altra parte del reato, fra ragazzi che «stanno scontando la loro pena senza cercare la nostra pena, perché della nostra pena non se ne fanno niente». Il vero muro, però, ci racconta Luigi Salvati, insegnante a Nisida, sta dentro il cuore dei ragazzi: «Il carcere sta dentro di noi, lo dico sempre». Racconta della volta in cui mostrò ai ragazzi la foto di un muro di mattoni, dove l’artista al posto di un mattone aveva inserito un libro. Il volume non aveva esattamente le stesse dimensioni del mattone e così nel muro si era aperta una crepa. «I ragazzi hanno detto subito “è il muro che ci portiamo dentro”. Uno solo ha detto “io non ho nessun muro dentro”. E l’altro: “ce l’hai ma ancora non lo sai”», dice.

Salvati ha quasi 64 anni ed è un alfabetizzatore. «Significa che sono un maestro elementare, ma invece di lavorare con i bambini per insegnare loro a leggere e scrivere, lavoro con gli adulti, da sempre». Dal 1988 per 31 anni ha fattolezione nella casa circondariale di Poggioreale, a Napoli e da quattro anni è passato al minorile. I ragazzi dopo Sanremo non li ha ancora visti. «Ma lei ci si è ritrovato?», chiedo. «Sì, soprattutto in quella domanda sui sogni che resta senza risposta. L’educazione deve avere dietro di sé la speranza e davanti a sé un sogno, cosa che i ragazzi qui spesso non hanno. Sembra sempre che tutto sia chiuso nell’oggi, che non sia possibile un futuro diverso da quello che sembra già scritto. Il vero muro che circonda Nisida, la vera prigione, è questa. Il desiderio esplicito di un’alternativa non lo hanno: sono sempre stati immersi in quella realtà, non immaginano nemmeno che ci possa essere una realtà diversa. Ma forse siamo anche noi che non siamo in grado di fare intuire loro che un’altra vita è possibile, di rendere credibile questa possibilità. Per coltivare un sogno occorre prima di tutto avere le spalle coperte dalla speranza, da qualcuno che ti protegge in quel sogno, che ti spinge ad andare avanti, che crede in te, che si fida di te. I primi a crederci quindi dobbiamo essere noi adulti, noi educatori. Sapendo che per fidarsi di qualcuno dobbiamo essere disposti a perdere qualcosa».

L’educazione deve avere dietro di sé la speranza e davanti a sé un sogno, cosa che i ragazzi qui spesso non hanno. Sembra sempre che tutto sia chiuso nell’oggi, che non sia possibile un futuro diverso da quello che sembra già scritto. Il vero muro che circonda Nisida, la vera prigione, è questa

Luigi ripensa a quel ragazzo che a 18 anni non sapeva né leggere né scrivere: «Dov’eravamo noi per 18 anni? Noi scuola, noi comunità, noi Stato». Un altro ha imparato scrivendo lettere alla fidanzata. Qualcuno si è esercitato nelle “lettere al direttore” e qualcun altro è arrivato a scrivere, nel laboratorio si scrittura collettiva, il messaggio di accoglienza per il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. «È un esercizio che è importante soprattutto perché dà ai ragazzi la possibilità di “sentirsi capaci”. È un’esperienza che loro non hanno mai fatto. “Allora anche io posso”, si dicono con sorpresa. Sì, anche tu puoi. È una prima piccola crepa nel muro».

L’altra crepa la apre la relazione: «L’esserci, il fare sentire che sei lì per loro, che sei appassionato della loro vita. Loro non dicono quasi mai il loro vero bisogno: “Sono qui per il pezzo di carta”, dicono. Ma sono lì per altro, perché la scuola in carcere è una zona d’ombra dove il carcere non è presente con il suo sguardo e dove i ragazzi possono tornare ad essere se stessi, spogliati dalla veste di ragazzi sbagliati. Allora viene fuori la tenerezza, la povertà, il senso di mancanza per quella famiglia che non hanno avuto, le violenze subite, la speranza di essere accolti e riconosciuti come persone. Certo che c’è la rabbia, c’è la “lotta” per la leadership, c’è il costruirsi un personaggio… ma quando li incontri uno a uno tutto questo viene meno», dice Luigi.

Quando ha iniziato a lavorare a Nisida, Luigi è passato dal suo maestro, Rolando Palazzeschi, il gesuita che ha inventato le 150 ore, per chiedergli un consiglio: «”Sarò all’altezza?”, mi chiedevo. Lui mi disse: “Gigi, accarezza il loro cuore. Il resto verrà da sé”. Aveva ragione. Accarezzare il cuore non è sentimentalismo, è farsi conoscere, spogliarsi delle vesti del maestro, riconoscerli come persone».

A Nisida la scuola sta in una piccola palazzina. Ci vanno una quindicina di ragazzi per volta, non tutti insieme. È l’unico edificio che non ha le sbarre alle finestre. Si vede il mare. «Io li osservo guardare il mare. Ieri a Sanremo hanno detto che i loro occhi sono pieni di rabbia e pieni di vuoto. A volte sì, è vero. Ma dopo un po’ a me pare che il loro sguardo si illumini».


In foto, un frame di “Mare fuori”, dalla cartella stampa della fortunata serie ambientata a Nisida

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