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Al confine, si fermano anche i diritti
Dopo la prima assoluta domenica 22 gennaio al Teatro Miela di Trieste, esce nelle sale italiane il documentario "Trieste è bella di notte", di Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre, che tratta il tema delle riammissioni informali, pratica di respingimento che subiscono i migranti dopo essere giunti su suolo italiano lungo la rotta balcanica
«L’unica cosa che chiedo all’Italia, all’Europa, è di chiudere a questo punto il sistema di asilo, perché così sono in tanti a soffrire. A parte i soldi e le difficoltà del viaggio, il respingimento è stata la cosa peggiore per me». Sono un pugno nello stomaco le parole di Aaqil Basar, uno dei protagonisti di Trieste è bella di notte, documentario di Matteo Calore, Stefano Collizzolli e Andrea Segre, presentato in anteprima assoluta domenica 22 gennaio proprio nel capoluogo giuliano.
Al centro della pellicola, le riammissioni informali, pratica avviata nel 2020 dall’allora ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, in virtù della quale la polizia italiana riconsegnava i migranti , spesso afghani o pakistani, rintracciati sul confine agli omologhi sloveni, che facevano lo stesso con i colleghi croati. Dalla Croazia – spesso dopo aver subito trattamenti inumani, come bruciature, torture e furti di soldi e vestiti – le persone fermate venivano riportate in Bosnia. Dopo uno stop arrivato successivamente a una sentenza della giudice Silvia Albano, che le aveva dichiarate illegittime, a novembre 2022 il nuovo ministro Matteo Piantedosi ha manifestato l’intenzione non solo di riprenderle, ma di intensificarle.
«L’idea per questo film nasce da una segnalazione di Gianfranco Schiavone e di Antonio Calò (il primo presidente del Consorzio italiano di solidarietà – Ics, realtà che si occupa di accoglienza a Trieste e membro dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione – Asgi, e il secondo professore che ha dato avvio al modello della “buona accoglienza”, ndr)» afferma Andrea Segre, «che ci hanno chiamato a fine 2020 dicendo che lungo il confine stavano avvenendo delle operazioni di respingimento illegale. Avevamo molti impegni, ma ci siamo ritagliati due o tre giorni per andare a fare delle interviste. Quando abbiamo sbobinato e tradotto le testimonianze che avevamo raccolto, ci siamo resi conto che erano storie che era importante raccontare». Le persone con cui i registi sono entrate in contatto hanno subito delle riammissioni informali, arrivate alla fine di un viaggio pericolosissimo – il cosiddetto game –, un percorso a piedi dalla Bosnia fino all’Italia, passando per la Croazia alla Slovenia, in cui hanno rishiato la vita attraversando boschi e montagne. Una volta a Trieste, non hanno potuto nemmeno formalizzare la richiesta d’asilo: gli è stato detto di salire su un furgone per essere trasferite in un centro di accoglienza, invece sono state riportate in suolo sloveno. «La base giuridica che viene fornita dal ministero è un accordo del 1996 tra Italia e Slovenia», commenta Stefano Collizzolli, «ma si tratta di un documento, tra l’altro risalente a un altro tempo, prima che la Slovenia entrasse nell’area Schengen, che non è mai stato ratificato dal Parlamento e che, oltretutto, è incostituzionale». Uno Stato di diritto – sostengono i registi – si dovrebbe basare sulla protezione degli individui dagli abusi e dai trattamenti inumani e degradanti; quello che accade, però, è che c’è una generale mancanza di attenzione, che fa sì che non venga chiesto a chi ricopre ruoli istituzionali di render conto delle proprie decisioni. «Questo problema riguarda le persone che fanno 20, 30, 50 volte il game e si vedono respinte», continua Collizzolli, «ma anche noi cittadini, perché cadono le barriere dei diritti fondamentali».
A raccontarsi nel film, anche alcuni ragazzi che vivevano accampati in una casetta abbandonata a Bihać, in Bosnia. «Siamo stati aiutati dalla rete RiVolti ai Balcani, che monitora la rotta balcanica», racconta Segre. «Quando siamo entrati in contatto con questi giovani, il nostro mediatore, che ci ha accompagnato, ha proposto di portargli un dono immateriale: la musica, che ha creato una complicità importantissima». I canti presenti all’interno del documentario sono infatti improvvisati su una base metrica e melodica nota e diventano veicoli fondamentali per il messaggio della pellicola.
Lungo tutto il film si vedono anche video girati dal cellulare, del viaggio dei migranti, delle loro esperienze: un riflesso della durezza dell’esperienza che stanno attraversando, ma anche delle speranze e dei sogni di raggiungere un luogo in cui costruirsi un futuro. «Per me il momento di maggior felicità è stato quando abbiamo attraversato il filo spinato con la Slovenia», afferma Muhammad Danyal, uno degli intervistati. «In quel momento dalla montagna si vedevano le luci della città nell’acqua. Dal confine, dall’alto, di notte, Trieste è molto bella». Di rado la narrazione delle migrazioni si concentra sulle aspettative, l’energia e la volontà delle persone coinvolte. «Nell’intervista, abbiamo voluto fare una domanda un po’ improbabile, scusandoci in partenza: abbiamo chiesto se durante il viaggio c’era stato un momento felice», ricorda Segre. «Alcuni ci hanno guardati con gli occhi sbarrati, altri ci hanno risposto. Volevamo che si vedesse anche una componente che non viene raccontata di solito, la voglia di ritagliarsi un angolo di gioia. Ridurre la storia dei migranti al solo aspetto pietistico contribuisce ad annullare l’identità delle persone, a relegarle nell’alterità».
Invece «Siamo tutti uguali, anche se parliamo lingue diverse, pratichiamo religioni diverse e veniamo da Paesi diversi», come hanno detto, con voce rotta dall’emozione, i protagonisti del film, raccolti fuori dal teatro Miela di Trieste, mentre osservavano commossi la lunghissima fila di persone in attesa di comprare il biglietto per la prima proiezione del film. «Non riusciamo a credere al fatto di venir visti da così tante persone, siamo veramente felici, vogliamo ringraziare i registi e la produzione», hanno continuato. «Vorremmo, inoltre, chiedere a chi è più fortunato, perché vive in uno Stato sicuro o perché ha abbastanza soldi per vivere, di pensare anche agli altri, perché anche loro hanno una vita, una famiglia e delle speranze per il futuro».
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