Mondo

La Capitol Hill di Bolsonaro (e di Bannon)

Ieri centinaia di supporter dell'ex leader di destra che non riconoscono la vittoria di Lula hanno preso d'assalto le principali istituzioni del paese sudamericano, il Parlamento, la Corte Suprema e il palazzo presidenziale di Planalto. Hanno rotto i vetri e le porte, rubato beni del patrimonio storico ed appiccato incendi bruciando sedie e tavoli come un anno fa a Washington. Oltre 400 gli arrestati e in serata Brasilia era tranquilla, anche se militarizzata. Il problema che rimane è la polarizzazione e l'ombra dello statunitense Steve Bannon, che ha appoggiato la violenza nella capitale verde-oro sui social

di Paolo Manzo

A una settimana esatta dalla cerimonia di insediamento alla presidenza di Luiz Inácio Lula da Silva, Brasilia si è svegliata ieri nel caos con centinaia di bolsonaristi radicali arrivati su autobus da ogni parte del paese e pronti a seminare il terrore nella città simbolo della democrazia brasiliana. Sprezzanti del pericolo e delle istituzioni hanno invaso e depredato i principali palazzi del potere della città fondata negli anni ’50 dopo che San Giovanni Bosco era apparso in sogno all’allora presidente Joselino Kubisheck.

Altri tempi, altra visione del mondo.

Ad essere invasi ieri il palazzo del Parlamento, quello della Presidenza detto Planalto e quello della Corte Suprema. Quello che è stata trasmesso ieri dalle televisioni di tutto il mondo è stato uno spettacolo distante anni luce da qualsiasi democrazia degna di questo nome e apre adesso un capitolo nuovo nella già martoriata recente storia della politica brasiliana.

Ci si chiede adesso a mente fredda come sia stato possibile arrivare a tanto senza che la polizia bloccasse sul nascere l’invasione in puro stile Campidoglio americano quando il 6 gennaio dello scorso anno estremisti pro-Trump riuscirono ad entrare seminando distruzione nelle stanze del potere di Washington.

Non è un caso che lo stesso Lula adesso abbia puntato il dita contro imprenditori dell’agrobusiness “con aiuti dall’estero” facendo indiretto riferimento a colui che nei corridoi viene additato come il sobillatore occulto (e forse anche il finanziatore) di questa massa devastatrice, ovvero Steve Bannon.

L’ideologo di Trump, condannato a quattro mesi di carcere per oltraggio al Congresso, non ha mai nascosto i suoi rapporti con la famiglia Bolsonaro, in particolare con i suoi figli. E nelle stesse ore in cui Brasilia veniva invasa dall’estremismo radicale nel suo profilo sulla piattaforma Gettr ha scritto che “Lula ha rubato le elezioni. I Brasiliani questo lo sanno” definendo gli autori della violenta invasione dei “lottatori per la libertà”.

Certo è che i segnali c’erano tutti per capire che qualcosa di molto violento sarebbe potuto accadere e adesso sotto accusa sono finiti il governatore dello stato del Distretto Federale dove si trova Brasilia, Ibaneis Rocha e il suo segretario alla sicurezza, quell’Anderson Torres ex ministro della Giustizia nel governo di Bolsonaro che in queste ore drammatiche era curiosamente in viaggio negli Stati Uniti.

Eppure nelle ultime settimane il paese intero aveva assistito ad una escalation di violenza. Prima le proteste davanti alle caserme in tutto il Brasile, poi gli scontri violenti dei bolsonaristi a Brasilia lo scorso 12 settembre con un tentativo di invasone della sede della polizia federale. Infine uno sventato attentato bomba all’aeroporto di Brasilia a poche ore dalla cerimonia di insediamento di Lula.

I segnali c’erano ma nessuno ha avuto l’idea di rafforzare la sicurezza alla notizia che centinaia di autobus domenica mattina erano arrivati a Brasilia pieni zeppi di manifestanti.

Alla fine della folle giornata la polizia è riuscita a riprendere il controllo dei palazzi occupati e ad arrestare 400 manifestanti cui adesso il governo di Lula promette un pugno durissimo.

La prima misura d’emergenza è stata quella di dichiarare l’intervento federale nella sicurezza dello stato del Distretto Federale dove ha sede la capitale Brasilia fino al 31 gennaio. Il che tradotto vuol dire che la gestione della sicurezza sarà non locale ma centralizzata a livello nazionale con la possibilità dell’intervento dell’esercito. L’escalation, insomma, rischia di aumentare.

Il leader di questi manifestanti violenti che sognano un golpe militare è quel Jair Bolsonaro che prima si è trincerato in un assurdo silenzio dopo la sconfitta elettorale e poi se ne è andato alla chetichella in Florida negli Stati Uniti per sfuggire ad un possibile arresto. Pur non essendo reo condannato in alcun processo, su di lui pendono infatti sette indagini tra cui quelle per la divulgazione di fake news, soprattutto durante la pandemia, l’uso di milizie digitali e l’interferenza nella polizia federale. Da Orlando dove vive ha sì condannato in serata quanto accaduto a Brasilia ma lo ha anche paragonato alle proteste del 2013 dei movimenti di sinistra contro i Mondiali di calcio.

I suoi alleati politici, comunque, da giorni hanno preso le distanze dall’ex presidente e i fatti di Brasilia hanno reso ormai irreversibile la rottura. Il suo ex vice, l’attuale senatore eletto Hamilton Mourão del partito dei Repubblicani che si è ritrovato a dover tenere al suo posto il consueto discorso presidenziale di fine anno, ha puntato il dito proprio contro gli errori dell’ex presidente, definendolo ”il leader che avrebbe dovuto tranquillizzare e unire la nazione intorno ad un progetto di paese” e non lo ha fatto. Il generale Carlos Alberto dos Santos Cruz, ex-ministro di Bolsonaro, lo ha chiamato “un estremista populista” che “non ha possibilità di essere leader della destra” e che, anzi, “ha contribuito a distruggere”. Il problema vero è che l’opposizione non ha al momento un altro leader da sostituirgli e questo rischia di rendere lo scenario politico brasiliano dei prossimi mesi ancora più polarizzato.

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