Mondo

Donne costruttrici di pace

Sono centinaia le attiviste per i diritti umani, che nei teatri di guerra di tutto il mondo lavorano ogni giorno come peacebuilders. Che lontano dai riflettori delle grandi conferenze internazionali, stanno ricucendo a mano i tessuti delle comunità lacerati dai conflitti per poter guardare oltre, alla fase di ricostruzione che succede agli scontri armati. Ne abbiamo conosciute alcune

di Agnese Palmucci

Le donne lo sanno. Stanno tessendo la pace a Zaporizhzia, denunciando, sotto le bombe russe, i diritti violati. Con i megafoni, nelle piazze di Kabul, sfidano i kalashnikov dei talebani gridando per la libertà. Nel Sahel martoriato dalle guerre civili e dagli attentati terroristici, si battono ogni giorno per garantire l’educazione scolastica. Sono centinaia le attiviste per i diritti umani, che nei teatri di guerra di tutto il mondo lavorano ogni giorno come peacebuilders. Che lontano dai riflettori delle grandi conferenze internazionali, stanno ricucendo a mano i tessuti delle comunità lacerati dai conflitti per poter guardare oltre, alla fase di ricostruzione che succede agli scontri armati. Ma che pace è quella che hanno in mente le donne?

Le esperienze delle “costruttrici di Pace”, come quella dell’ucraina Anna, dell’afghana Oleza, della maliana Amina, si sono intrecciate a Roma lo scorso sabato, nell’incontro che ha aperto la prima parte del Forum delle Giornaliste del Mediterraneo 2022. Un’edizione con cui si è desiderato proporre, grazie al supporto di Pangea, associazione per lo sviluppo integrale della donna, uno spazio di confronto di genere sul ruolo delle donne nei processi di uscita dalle guerre. «Corpi, ecosistemi, comunità smembrati dai conflitti, ricuciti dalle donne», è questo il titolo del Forum di quest’anno, che vedrà una seconda parte di lavori tra il 21 e il 25 novembre a Bari a partire dall’Agenda Onu “Donne, Pace e Sicurezza”.

Il Forum, ha spiegato Simona Lanzoni, vicepresidente di Pangea, «vuole dare voce alle donne che sono in situazione di sofferenza», e per questo «con donne che arrivano da tre aree di conflitto, abbiamo lavorato insieme due giorni e discusso proposte per includere le attiviste mediatrici in tutte le fasi delle negoziazioni di pace». Quella che vogliono le donne nei territori in guerra, è una pace «intesa non come tregua», sottolinea Marilù Mastrogiovanni, giornalista fondatrice del Forum, ma «come azione di contrasto preventivo alla guerra». Una dimensione ben più complessa, dunque.

«La mia famiglia è ancora a Zaporizhzhia e non ci sono parole per i traumi subiti da tutti. – ha raccontato sabato alla Casa Internazionale delle Donne, Anna Chernova, giovane attivista, fondatrice dell’Ukrainian Women’s network per la Pace, – La comunità internazionale non dovrebbe provvedere solo al cibo ma anche all’aiuto psicologico». Accanto a lei Katerina Khanieva, coordinatrice ucraina dell’associazione Slavic Heart, si commuove dopo aver lanciato, a sua volta, un appello: «proteggete i diritti delle donne nelle zone di guerra, perché solo loro, che vedono mariti e figli morire, sanno il prezzo della pace». Susanna Ketsmur, responsabile di progetti sociali nell’oblast di Zaporizhzhia e rappresentante della diaspora ucraina in Europa, ha aggiunto un tassello in più. «A febbraio sarei dovuta rientrare nel mio Paese, ma la guerra ha bloccato tutto. Ben presto occorrerà riconoscere e punire chi ha commesso i crimini di guerra, ma le armi ora devono servirci solo per proteggerci e non per innescare altra violenza. Per guardare oltre bisogna passare per l’attestazione della verità».

Negli occhi delle donne ucraine, le attiviste dell’Afghanistan rivedono il loro stesso coraggio e le stesse angosce. «Ho ascoltato le parole di Katrina, la capisco bene – ha detto Shahnaz Faqiri, giornalista – vivo le stesse tragedie. Questo è il momento giusto per creare un network di donne che operano in situazioni di conflitto, perché condividere le esperienze fa bene a tutte». «Nel nostro Paese – commenta Orzala Nemat, ricercatrice, – da quando è tornato il regime talebano, le donne non hanno mai smesso di operare per i diritti umani, a rischio della propria vita. Non stanno aspettando gli aiuti internazionali, stanno lavorando sui territori, protestando e aprendo scuole segrete». Tra le relatrici afghane c’è anche Bassira, giovane ex manager. La sua voce si incupisce quando racconta delle restrizioni imposte alle donne dai talebani, da agosto 2021. «I divieti per le studentesse sono la causa di moltissimi disagi psicologici, e di moltissimi suicidi tra le giovani a cui non è concesso entrare a scuola. Sono in pena per tutte le ragazze».

Dai conflitti più recenti a quelli che durano da anni, senza soluzione di continuità. Come le guerre civili nel Sahel, dove la quotidianità è fatta di imprevisti. Amina Niandou è segretaria generale dell’Associazione dei professionisti africani della comunicazione in Niger. «Anche noi tra Mali, Niger e Burkina Faso, viviamo tutte le atrocità di cui si è parlato, – dice – alcune zone subiscono ogni giorno attacchi terroristici, e spesso non sappiamo neanche chi è stato a colpire. Noi continuiamo a denunciare la chiusura delle scuole e l’abbandono dei bambini a loro stessi».

Proveniente diverse, esperienze diverse, ma la rete di attivismo parla l’unica lingua della cura e dell’amore per il proprio popolo. Quella che si sta alzando, insomma, è la voce di donne peacebuilders che da tanti territori in guerra provano a inventare strade percorribili per attraversare le situazioni di conflitto con lo sguardo già rivolto alla ricostruzione dei Paesi. Preservando intatte le comunità.

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