Welfare
Reddito di cittadinanza: cambiamolo così
Il sussidio raggiunge meno della metà dei poveri assoluti. Come fare? Intervenire sui requisiti di accesso, integrare gli importi, migliorare la presa in carico, riqualificazione professionale. L'intervento del portavoce dell'Alleanza contro la povertà
Una certa inquietudine ti prende scorrendo il rapporto Caritas sulla povertà in Italia, presentato a Roma. La Caritas, sulla base di una rigorosa osservazione della realtà, riprende il concetto di povertà intergenerazionale: la povertà che dura a lungo e attraversa le generazioni. In Italia servono in media 5 generazioni per arrivare a disporre di un reddito medio, se nasci in una famiglia povera. Il rapporto usa la metafora dei “pavimenti appiccicosi” e dei “soffitti appiccicosi” per spiegare meglio il fatto: chi viene da famiglie povere fatica a salire la scala sociale, chi viene da famiglie ricche non scende facilmente. L’ascensore sociale è fermo. La ricerca dimostra come la povertà intergenerazionale pesi per quasi il 60% dei casi. Per esempio, solo l’8% dei giovani con genitori senza titolo superiore ottiene un diploma universitario, quando la media dei Paesi Ocse è del 22%.
Staccare persone e famiglie dai pavimenti appiccicosi è un compito arduo ma importante. In Italia ci dovrebbe pensare il Reddito di cittadinanza. A questo proposito la Caritas — che, come noi dell’Alleanza contro la povertà, propone di implementarlo — specifica che il sussidio raggiungerebbe meno della metà (44%) dei poveri assoluti. Il dato generale è di difficile individuazione, però a grandi linee potremmo impostare questa sottrazione: secondo l’Istat i poveri assoluti in Italia nel 2021 sono 5,6 milioni; secondo l’Inps i beneficiari attuali del RdC sono 3,4 milioni; la differenza è di poco superiore ai 2 milioni di individui. È un calcolo “a spanne”, ma che conferma l’ipotesi della scopertura: il RdC non raggiunge tutti i poveri. E si tenga conto che i rincari dovuti alla guerra contro l’Ucraina aumenteranno il minuendo e contemporaneamente — se le dichiarazioni della campagna elettorale saranno mantenute — non aumenterà il sottraendo. Tempi duri, insomma.
Comunque occorre migliorare la capacità di accesso e, nel contempo lavorare perché la misura migliori nel suo complesso. Cosa fare, dunque. Ecco quattro idee.
1. Modificare i requisiti all’accesso
Qualcuno si vergogna, qualcuno è fuori dagli stringenti requisiti per fare domanda, qualcuno non è in grado di fare domanda, qualcuno non ce la fa a reperire tutti i documenti necessari, si pensi alla povertà più grave. Serve informare e accompagnare le persone in condizioni di povertà nella fase di presentazione della domanda. Poi ci sono quelli che “non ci entrano” proprio, come gli stranieri, a cui sono richiesti ben dieci anni di permanenza (requisito veramente odioso) e quelli che sono entrati in povertà da poco pur disponendo di un minimo di patrimonio, poco utile per andare al supermercato e perfino dannoso ai fini dell’ottenimento del beneficio.
All’accesso si pongono anche problemi relativi ai “furbetti”: di solito sono individuati (la stampa dà ampio risalto ogni volta), però è vero che i controlli devono essere più rapidi e si deve scongiurare il collegamento tra l’essere percettori e l’essere lavoratori in nero.
2 . Integrare gli importi
L’importo varia a seconda del numero di figli ma di fatto penalizza le famiglie con più figli. L’importo non tiene conto dell’inflazione. Il caro-bollette di questo autunno sarà disastroso per questi nuclei familiari. Bisogna indicizzare l’importo.
3 . Migliorare la presa in carico
Servirebbe reintrodurre l’analisi preliminare, per avere una quadro esaustivo della famiglia e delle condizioni dei singoli membri, per avviarli con maggiore utilità ai patti per il lavoro o ai “servizi sociali”. Il ruolo dei Comuni e dei servizi territoriali è essenziale (andrebbe implementato, in amministrazione condivisa con i soggetti del Terzo settore e i sindacati). Vanno rivisti i famosi Puc, per renderli volontari. Questa parte, più territoriale, è centrale, è la vera chiave di volta.
4 . Avviare al lavoro in modo più coerente
Non si tratta di dare un lavoro qualunque esso sia. Le politiche attive del lavoro per persone in condizioni di fragilità, di dipendenza, di malattia, di instabilità non sono semplici. Serve motivare e invogliare, ma c’è anche — e non sono pochi, come dimostra una ricerca dell’Anpal — chi non è facilmente occupabile per titolo di studio troppo basso, per età troppo alta, per competenza troppo assente, per patologia troppo grave. Ecco perché servono anche percorsi di riqualificazione. In essi bisogna tenere presenti i casi fragili così come i “nuovi profili a rischio di povertà”, come dimostra il periodo del Covid.
Riformare il RdC si può, ma serve molta cautela. Abbiamo a che fare con un “materiale umano” molto delicato. Serve pazienza, tempo, molta precisione. Se non si analizza bene, non si è neppure in grado di proporre il progetto adeguato. Non possiamo rischiare di perdere le persone e le famiglie, perché il danno è durevole, e cancella delle vite.
In foto: La mensa di Opera San Francesco in via Concordia a Milano
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