Famiglia
Il Piemonte approva l’«allontanamento zero»: il diritto preminente diventa quello dei genitori
Approvato in Piemonte il disegno di legge-bandiera della Lega, che vede nell'allontanamento dei minori una indebita ingerenza in famiglia anziché uno strumento di tutela per i minori. Joëlle Long, esperta di diritto minorile: «Si passa dal diritto del bambino a crescere in una famiglia al diritto dei genitori a crescere i loro figli»
Nelle stesse ore in cui a Roma la presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni, nelle sue dichiarazioni programmatiche rivendicava l’impegno a «limitare l’eccesso di discrezionalità nella giustizia minorile, con procedure di affidamento e di adozione garantite e oggettive, perché non ci siano mai più casi Bibbiano», a Torino l’assessora al Welfare della regione Piemonte, la leghista Chiara Caucino, festeggiava l’approvazione del disegno di legge “Allontanamento zero”, presentato nel dicembre 2019 sulla scia della vicenda Bibbiano. Un titolo marcatamente evocativo (ma potremmo spendere anche l’aggettivo ideologico, senza timore di smentita) per un disegno di legge che vorrebbe – dice – promuovere «interventi a sostegno della genitorialità e norme per la prevenzione degli allontanamenti dal nucleo famigliare d’origine».
Il Consiglio Regionale del Piemonte l’ha approvato ieri con 29 sì e 14 no, dopo quasi tre anni di discussione. «Avete discusso per troppe ore su un titolo che vuole realizzare un sogno», ha detto l’assessora difendendo il suo provvedimento-bandiera. Anzi, ha rilanciato: «Il sogno è mai più bambini strappati con violenza alle loro famiglie, mai più bambini che urlano e piangono perché spesso con l’inganno vengono portati via da scuola e dai loro genitori. Allontanamento zero è mai più queste scene. È mai più decreti di allontanamento in cui si legge che il bambino è arrivato a scuola con un livido, che vive a contatto con troppi animali o in una cascina. Mai più bambini sequestrati in comunità dove ci sono lucchetti alle porte e che non possono liberamente mandare una mail alla propria mamma, fare una telefonata, continuare a frequentare le vecchie amicizie o la vecchia associazione sportiva perché non ci sono risorse sufficienti, operatori sufficienti». Un trionfo di retorica, che l’assessore ha chiuso dicendo che «Non c’è nessun fiore, in nessun giardino del mondo, bello come un bambino seduto sulle ginocchia della propria mamma».
Alla professoressa Joëlle Long, esperta di diritto minorile, docente all’Università di Torino, abbiamo chiesto un commento.
Il disegno di legge ha avuto tre anni di gestazione e discussione. È stato molto criticato. Sono stati recepiti dei correttivi?
Ben pochi. Il testo approvato è rimasto sostanzialmente analogo al primo testo presentato. Non sono state ascoltate le tante voci dei professioni e delle professioniste che ne avevano chiesto in primo luogo il ritiro e in subordine almeno la modifica di alcuni dei contenuti.
Qual è la sua valutazione del disegno di legge piemontese?
Negativa. Il punto di partenza è condivisibile, ridurre gli allontanamenti in modo da attuare pienamente il dritto del bambino a crescere nella propria famiglia e ad esserne allontanato solo nei casi strettamente necessari per la sua protezione. Questo principio è peraltro pacifico e già scritto nel diritto internazionale e nazionale. Ciò che non è condivisibile è la strada indicata dal disegno di legge per attuare questo diritto del minore. L’analisi del disegno di legge ne mostra l’impronta adultocentrica: si va incontro più alle istanze dei genitori che lamentano gli allontanamenti che all’interesse del minore, disconoscendo che in alcuni casi l’allontanamento è una necessità per garantire adeguata protezione al minore. Si passa dunque dalla tutela prioritaria dell’interesse del minore a quella degli interessi della famiglia d’origine, dalla proclamazione del diritto del bambino a crescere in una famiglia al diritto dei genitori a crescere i propri figli.
In quali punti della futura legge questo cambio di prospettiva si fa evidente?
Per esempio nel riferimento ai parenti che c’è nell’articolo 9 del disegno di legge: si introduce un obbligatorio coinvolgimento dei parenti entro il quarto grado, ai quali deve essere proposto l’affidamento prima di disporre il collocamento presso una famiglia affidataria terza. Il fatto che nella collocazione del minore in affido vadano privilegiati i legami affettivi esistenti è qualcosa che già esiste nell’ordinamento: la differenza è che ora si introduce in modo rigido il coinvolgimento della famiglia allargata, anche a prescindere dall’esistenza di un rapporto significativo con il minore e senza previsione della necessità comunque di valutare l’idoneità della famiglia in questione. La famiglia allargata, infatti, non sempre è la soluzione migliore: per i nonni per esempio può essere difficile rendersi conto dalle inadeguatezze dei figli e prenderne le distanze. Occorrerebbe valutare caso per caso. Invece il disegno di legge dice che bisogna rivolgersi ai parenti prima di procedere all’affido eterofamiliare. Ma se l’allontanamento diventa un percorso ad ostacoli, rischia anche di non essere tempestivo.
A questo proposito, come giudicare il fatto che il disegno di legge preveda che l’allontanamento di un minore dal nucleo famigliare di origine per inadeguatezza genitoriale non possa avvenire senza prima aver messo in atto un progetto educativo familiare della durata minima di sei mesi?
È una rigidità. Ci sono situazioni in cui potrebbe essere necessario meno tempo per rendersi conto che nell’interesse del minore è necessario allontanarlo. E allora cosa si fa, si aspetta?
Di per sé supportare le famiglie per prevenire l’allontanamento è un obiettivo valido, non c’è nemmeno bisogno di dirlo. Cosa c’è che non va allora?
Lo dicevo prima, il problema è la strada indicata per attuare questo obiettivo. Poi c’è il grosso tema dei fondi, visto che la legge non stanzia risorse aggiuntive. Si danno nuovi compiuti ai servizi sociali (penso per esempio al piano educativo familiare, PEF) senza stanziare risorse, con il rischio che questi vengano interpretati dai servizi come adempimenti di carattere burocratico, da fare a tavolino. Oggi i servizi operano sostanzialmente nell’urgenza e su situazioni molto compromesse: qui si stabilisce che una quota di risorse devono essere messe sulla prevenzione ma decurtandole dal finanziamento ordinario, cioè lasciando con meno risorse l’urgenza. Siamo tutti d’accordo che la prevenzione è strategica, ma significa investirci risorse economiche e professionali.
Che senso ha parlare di allontanamenti zero quando le cronache ci restituiscono casi come quello della piccola Diana a Milano, di Elsa a Napoli e di Nicolò a Longarone?
Non mi piace strumentalizzare le vicende dei bambini, né in un senso né nell’altro. L’invito che mi sento di fare è a mettersi in ascolto delle testimonianze di ragazzi che hanno vissuto l’esperienza dell’affido e che hanno preso parola contro questo disegno di legge. Penso per esempio ai ragazzi di Agevolando e del Care Leavers Network che evidenziando come tante volte l’allontanamento sia stato per loro fondamentale per avere una crescita adeguata. La narrazione oggi non infrequente che veda negli assistenti sociali e nei giudici minorili dei “ladri di bambini” si nutre dell’idea tradizionale che i panni sporchi vanno lavati in famiglia, al massimo nella famiglia allargata… fino al quarto grado. È stata invece una conquista di civilità quella del riconoscimento del dovere dello Stato di intervenire per garantire ai minori cure adeguate nel caso di incapacità dei genitori. Così dice tra l’altro l’articolo 30 della nostra Costituzione.
Questo disegno di legge piemontese – che già altre regioni sembrano voler far proprio – quindi segna una involuzione?
Esatto, perché torna a una prospettiva che mette al centro i genitori e non i minori, in contrasto con decenni di buone pratiche. Certo, ci sono state pronunce da parte della Corte di Cassazione come pure da parte della Corte europea dei diritti umani che hanno ritenuto che in casi specifici non vi fossero i presupposti per la separazione dei figli dai genitori e hanno stigmatizzato prassi ricorrenti (penso in particolare alla mancanza di valutazione anche antropologica culturale nell’accertamento delle competenze genitoriali di genitori migranti, spesso madri sole e con esperienze migratorie traumatiche), ma in generale la valutazione sul sistema italiano della giustizia per la famiglia e i minori mi pare debba essere positivo e il suo punto di forza è proprio la centralità attribuita al minore che qui invece viene smantellata.
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